“Il grande spirito” (2019) è il tredicesimo lungometraggio del regista-attore pugliese Sergio Rubini.
Taranto e la Puglia, il Sud e l’Ilva, il Silenzio e i fondi, le giostre lavorative e le ruberie sottobanco.
Sergio Rubini ci mette animo e passione in questo racconto fatto di impegni e disimpegni dove l’incontro tra Tonino e Renato, ovvero Cervo Nero e Barboncino. I nomi e i sotto-nomi, la città e i suoi tetti, la miseria con ladri e piccoli quartieri. Si apre un piccolo mondo nel destino non cercato nella fuga come panorama alla vita
vacua e inutile per gli ultimi e i diseredati.
Un western metropolitano o meglio da ‘piccionaia’ per una città estrema dove si vede poco ma si immagina tutto. Tra le luci offuscate mattutine, le ombre e penombre e gli sguardi dall’alto mentre lo smog industriale si alza e ammanta i colori notturni di case addormentate.
In un mondo pieno di basse qualità, di ladruncoli vili e di ragazzi facili al grilletti,
dove il sito e le sembianze funeree ritrovano gusto in un linguaggio dialettale, fangoso, slabbrato e impoverito l’incontro tra due volti contrapposti arriva ad essere un luogo fisico (nel senso vero) di non-senso, di itinerario, di prospettiva e di congiungimenti (ir)reali.
Una rapina, un palo, uno sparo e un borsone pieno: Barboncino è lì, sale le scale, vede il disastro, un amico per terra e un boccone prelibato. Apre la finestra e quasi senza pensarci scappa con il malloppo tra balconi, terrazze e tetti della città. La fuga è ben girata, gli amici di combriccola vedono e inizia la rincorsa fino ad un nascondiglio…e uno strano incontro. Il borsone sempre a fianco, una caduta da un’impalcatura e il preziosissimo denaro finisce sotto un cumulo di materiale edilizio. Una ferita alla gamba, una guarigione lenta e l’amico per caso si adopera per rigenerarlo.
Uno strano connubio con questo incipit coinvolgente e diverso, salutare e ironico. Nella Taranto del fumo industriale, le luci naturali e artificiali nascondono problemi e vizi, ruberie e raggiramenti.
Il terrazzo di arrivo diventa luogo di vista privilegiato e il binocolo prestato dal suo amico (silenzioso) portano immagini dei suoi ‘conosciuti di strada’. Un terrazzo sulla città (quasi il set di memoria hitchcockiana) uno sguardo sul mondo inferiore, un set fuori posto e segni lontani.
Un film che spia, che osserva, che chiosa cartoline senza un vero saluto, che cimenta spiragli di contrapposte vite senza fini.
Un Sioux che vuole vincere la sua battaglia contro un nemico che non si vede, un ladruncolo debosciato che vuole uscire dal lunario da tutti abbandonato; il grande spirito aleggia. Un fuori di testa e un fuori di fuga che stranamente si conoscono senza saperlo, si aiutano senza chiederlo, si salvano dal nulla promettendosi il nulla. Tonino e Renato sono indesiderati, debosciati, ultimi e con menti contorte.
Immune da difetti, indiavolato e per quanto (im)mobile, ogni momento pare silenziosamente efficace e (im)pertinente desiderante. Un film dove il gioco dell’incontro si scalda senza calore e si spegne senza lo stoppino di una candela. Nel mentre la città s’addormenta e si sveglia i tetti guardano un alto forno e un fumo perenne, un marchio di ieri e dell’oggi gramo.
Gente di Taranto invisibile e indiana, gente che si accontenta, gente che subisce e quel finale in odore di pallottole è la battaglia invisibile tra estreme vite senza una notizia, tra volti che amano se stessi….senza profumi.
E il passo veloce di Tonino tra un lungomare e la fila di auto si scompone per fuggire. Un ‘Oltre Taranto’ verrebbe da dire (quasi verseggiando in modo truce l’aplomb di Peter Sellers di ‘Oltre il giardino’ del 1979) alla conquista di un luogo ancora da conoscere.
Sioux o non sioux, esperimento o fatuo incontro, sorpresa o nascondiglio: ecco che Cervo Nero balla, senza paure alcune, aspetta la sua redenzione. Quasi uno scompiglio nei piani di Barboncino. Un animale che incute paura e un animale senza padrone: uno sconfitto per sconfitti. È il ‘verismo’, crudo, mesto e volgare di una città che vuole ribellarsi e ‘balla’ con l’indiano per svegliarsi piena di vita. È il simbolo (i.l.v.a.): innocua, libera, vittoriosa e amara.
Rocco Papaleo (Renato) ha il personaggio della sua vita, riesce a guadagnare molti punti e ad essere dentro il suo movimento sempre. Ha trovato la grandezza sprecandosi senza un tetto e sbucando senza un volto. Vive in pausa perenne tra visioni dall’alto e uno spirito ancora inarrivabile. Finalmente, verrebbe da dire, un ruolo prettamente misero ma efficace, con occhiali coprenti, una barba incolta e un vestiario post rionale. Il bel volto scarno e asciutto scava il sogno irreale di un mondo sconosciuto. E Barboncino incontra un qualcuno che suona la carica finale quando non ci sei e fuori schermo. Un ballo sioux e un passo di danza da western perduto per sempre. Un colpo di freccia e un colpo di teatro che rasentano una tenerezza infantile con un sangue rosso che azzera la morte della Taranto sconosciuta sopra dei balconi dispersi tra porte di sicurezza, scale interne e parabole moderne mentre l’Ilva dal fondo sfuma rabbia e spadroneggia nenia nel languido panorama verso il mare.
Sergio Rubini (Tonino) ammonisce il suo personaggio e da il la al suo dirimpettaio Rocco Papaleo. Un dono a chi ha di fronte. Il gesto del binocolo è solo un inizio. Ma il regalo è una partecipazione strana, composita e surreale. Una recitazione a soggetto, quasi inventata, con sottotitoli per un dialetto non sempre comprensibile.
Forse un’asciuttezza e una maggiore attenzione al linguaggio avrebbe giovato all’intera pellicola. Restano i sali scendi delle scale e scalini con un senso metaforico convincente. Fotografia (Michele D’Attanasio) di grande impatto tra diurni e notturni, mestizie e panorami. Musica (Ludovico Einaudi) sincera ed elegante, ansiosamente serale.
Regia presente, pastosa e sentita.
Voto: 7/10 (***).