Il nome del figlio, odissea nell’oblio
Il massacro relazionale italiano è servito a cena tra frustrazioni, segreti e rabbiose verità. Il nome del figlio (2015), gran burattinaia cerimoniale Francesca Archibugi.
Una serata come tante tra quattro vecchi amici e l’ultima arrivata. Idee(ologie) differenti, ma non abbastanza separatiste per cedere all’oblio collettivo. Gli inevitabili pensieri-preconcetti da non sbattere volgarmente in faccia al diretto/a interessato/a. Uno scherzo a oltranza capace di rompere gli argini ed ecco che l’apparente quiete borghese si fa più utopica di un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Tratto dalla piece teatrale Le Prénom di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, Francesca Archibugi dirige Il nome del figlio.
L’uomo è ciò che costruisce. Fragile, incurante delle possibili e più tragiche conseguenze. Il silenzio della non-onestà reciproca rimbomba come l’eco mortale di quelle tangenti intascate per risparmiare sulla solidità degli argini fino all’esondazione dei fiumi con tutto ciò che ne consegue. Per l’essere umano non c’è via di mezzo tra l’ipocrisia e la rabbia urlata. Non esiste confronto senza scontro emorragico. Nella quotidianità intellettual-borghese de “Il nome del figlio” va in scena il più tipico massacro italiano, dove infeltriti maglioni da buon salotto si ergono su piedistalli da cui separare ciò che è buono e ciò che è sbagliato mentre l’orda di impeccabili peccatori e non-idealisti dovrebbe accettare di buona obbedienza.
Paolo Pontecorvo (Alessandro Gassmann) lavora nel campo immobiliare. È sposato con Simona (Micaela Ramazzotti) e stanno per avere un figlio. Quest’ultima, molto sempliciotta e provinciale, ha appena pubblicato un libro con un incredibile successo commerciale. La coppia è attesa a cena da Betta (Valeria Golino), sorella di Paolo, e il marito Sandro (Luigi Lo Cascio), professore universitario sinistrorso e implacabile twittatore. A chiudere il quintetto, il musicista Claudio (Rocco Papaleo), amico storico dei Pontecorvo & family.
Dai sorrisi politicamente corretti si passa “dolcemente” ai diti puntati. Dentro di sé ognuno ha il proprio dirimpettaio verso cui sfogare le proprie frustrazioni. E pazienza se l’altro sarà ferito, l’importante è dimostrare di avere ragione (Sandro), continuare a ridere sotto i baffi (Paolo) o mantenere una posizione di arbitro (Claudio) per far si che nessuno accenda qualche riflettore lì dove non si dovrebbe.
Betta e Simona sono agli antipodi. Donna piangente la prima, capace solo di lanciare frecciate all’ormai frigido marito ma allo stesso tempo pronta a colpire senza pietà chiunque metta in discussione il suo inesistente (e sofferente) rapporto con la madre. Simona, invece a dispetto delle sigarette aspirate senza sosta in gravidanza, è molto più materna di quanto la sua apparenza non possa far pensare. Perfetto anello di congiunzione tra le zone d’ombra e la verità di un futuro che potrebbe essere migliore se solo i protagonisti ci provassero davvero.
Non c’è tempo per le riflessioni né per capire. Nel cinema come nella vita si punta al lieto fine sommando palafitte su fondamenta su palafitte senza badare ai troppi cimiteri. Fiero della propria ideologia, Sandro passa in un attimo sul piano personale, sminuendo e aggredendo Simona, per poi riavvicinarsi con un minimo abbraccio e un chiedere scusa. Troppo poco. Oggi è stato Il nome del figlio, domani sarà di certo qualcosa d’altro. È anche così che nel mondo non cambia mai nulla.
© RIPRODUZIONE RISERVATA