Nel nome de Il padre e del genocidio armeno
Storia (negata) e film, “Il padre” (The cut, 2014 di Fatih Akin), presentato in Concorso alla 71° Mostra del Cinema di Venezia. Mardin (Mesopotamia nordorientale, 1915). Nel sanguinoso teatro della I Guerra Mondiale l’Impero Ottomano si è alleato con l’asse Austro-Germanico. Non passò molto tempo prima che ogni straniero (o presunto tale) fosse visto come una potenziale minaccia per la sicurezza nazionale, e fu così che iniziò il genocidio armeno. Strappato ai propri cari, il fabbro Nazaret (Tahar Rahim) si ritrova a marciare nel deserto verso morte certa. Complice gli scrupoli del suo boia che non spingerà la lama fino in fondo, sarà quasi sgozzato perdendo la favella ma non la vita. Ritrovata la libertà, ha inizio una disperata ricerca per ricongiungersi con la sua famiglia. Nascosto dal generoso saponiere Omar Nasreddin (Makram J. Khoury), Nazaret scopre che sua moglie Takel è morta mentre le due figlie gemelle Lucinée e Arsinée sono ancora vive. Comincia così un lungo viaggio che lo porterà fino a Cuba (bellissime le immagini del Malecon) e poi nel desolato Nord Dakota (USA). Sono passati cent’anni da allora ma il governo di Ankara nega ancora il genocidio armeno. Non solo in Turchia è proibito parlarne pena l’arresto ma in seguito alle parole di Papa Francesco su tutti i genocidi perpetrati (armeno incluso), ha perfino richiamato i propri ambasciatori dallo Stato del Vaticano. Non è da meno il resto del mondo di cui solo 20 nazioni (tra cui Canada, Italia, Francia e Russia) hanno riconosciuto il genocidio armeno. La guerra è finita ma qualcosa dentro Nazaret è cambiato. Troppo odio. Troppa disumanità. Così, quando una nativa Squaw viene assalita per essere violentata da un macchinista, lui coraggiosamente interviene mettendola in salvo. Allo stesso modo, mentre i civili turchi sono in fuga e le posizioni di potere sono invertite, alla vista di un bimbo colpito da un sasso armeno, lui si ferma e inizia a comprendere l’importanza del rispetto e della riconciliazione. Qualcosa che dalle parti di Istanbul ancora soccombe nel nome delle bugie più economicamente convenienti.
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