L’onda impetuosa dei “crime movie” all’italiana prosegue incessante. La parabola iniziata con Gomorra e passata negli anni tra i vari Romanzo Criminale e Suburra, giusto per citarne un paio, inizia ad ingolfarsi di mezze storielle poco carismatiche. L’attenzione di Giancarlo De Cataldo, nome di spicco in questo ambiente gangster/noir e comune denominatore tra questi titoli, non basta per nascondere la mediocrità di un prodotto scolastico quale “Il permesso – 48 ore fuori”, secondo lungometraggio di Claudio Amendola, uno che nel corso della sua carriera ha sempre avuto un certo interesse verso la realtà più scura e profonda della criminalità.
Non è questo il caso specifico. Per quanto diretto e sboccato, il soggetto della storia mette a confronto quattro piccole storie personali senza andare a mescolarsi fino in fondo alla natura più tristemente celebre del nostro paese. Luca Argentero, Giacomo Ferrara, Valentina Bellè e lo stesso Amendola, sono i quattro protagonisti di questo spaccato sulla rabbia e redenzione di chi si è già marchiato di un peccato capitale impossibile, o quasi, da lavare: il carcere. Tra desideri di vendetta, autodistruzioni interiori o semplice accettazione dei fatti, il film adotta canoni fin troppo elementari combinando clichè su clichè che niente aggiungono, tanto meno equiparano, l’elevato standard narrativo qualitativo a cui oggi siamo abituati grazie a produzioni eccellenti.
La banalità della storia, quattro figure che in due giorni di permesso dal carcere cercano di sistemare vecchie storie, o viverne di nuove, si avverte quando ancora stiamo indugiando nello sperare in un risvolto improvviso nello svolgimento. La pellicola dura appena novanta minuti, quasi volesse andare dritta al sodo senza sforzarsi di trovare una minima empatia con lo spettatore, orfano di qualsiasi emozione e naufragato tra dialoghi vuoti e performance incolori, sopraffatte da un uso invadente della musica e da una regia priva di mordente.
Il passo falso de “Il Permesso” dimostra che anche a battere il ferro finchè caldo ci vuole pazienza e un occhio attento e misurato. L’impronta di Amendola, forse ingolosito da Suburra, fatica ad emergere, restando sospesa tra il noir e il drammatico senza prendersi eccessivi rischi. Un peccato facilmente dimenticabile.
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