(In collaborazione con Orietta Anibaldi) “Il primo uomo” o l’ultimo? Con lieve ritardo per il cinquantenario della scomparsa di Camus, avvenuta il 4 gennaio 1960, nel 2011 sono uscit’almeno un paio di film dedicatigli, ma mentre “Detachment” di Kaye sembr’un bigino superficiale sul pensiero dell’autore franco-algerino, invece quest’opera d’Amelio suscita un’impressione forte e positiva: la sua pellicola migliore e la più sofferta. Eppure non tutti i conti quadrano. Ci può stare la critic’ad Amelio per il suo stile “banalmente” neorealista, ma è che qui, su qualunque cosa venga detta o inquadrata, aleggia la morte. Quella di Camus nell’incidente stradale da cui è spuntato l’omonimo romanz’incompiuto, quella con cui inizia il film (una ricerca del padre o una ricerca della sua tomba al cimitero?), quella che, dopo il devastante incipit de “L’Étranger”, non può non pervadere ogni personaggio materno (“Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so”). Per quant’Amelio stratifichi l’opera di mille sfaccettature a cominciare dalla sovrapposizione fra biopic storico e autobiopic intimista, qualsiasi argomento e qualsiasi figura sullo schermo sono circonfusi da tale alone funereo che poi è la quintessenza di Camus e del suo “esistenzialismo da Sisifo”. Le diapositive sui morti durante la Prima Guerra Mondiale (“i cadaveri in putrefazione spesso si ammassavano nelle trincee in preda ai topi e ai vermi, ed erano causa di spaventose epidemie. La guerra uccis’e mutilò più d’un milione di soldati”), gl’atti di terrorismo dell’FLN (il pullman fatto saltar’e i defunti sparsi a terra), il primo dialogo in auto coi giovani che ricevono il protagonista in aeroporto (“colui che scrive non sarà mai all’altezza di colui che muore”): non è un aspetto che s’imponga con fulgida evidenza, semmai un basso continuo che fa da sfondo a ogni elemento raccontato e mostrato. Il risultato suona (volontariamente?) da lascito testamentario: più che la “vitalità sorprendente” (cit.) d’un viaggio nella memoria, negl’affetti, nei personali referenti culturali e nello scarto generazionale fra due diverse epoche sociopolitiche, assomigli’al tipico film della propria vita che passa in testa negl’ultimi attimi del proprio capezzale. Hanno scritto che “il primo uomo” del titolo, <<oltre a identificare la figura del padre mai conosciuto, si presta a segnalare in modo ben più netto quell'essenza primigenia, archetipica, pura e dimenticata che è propria del bambino ("Ogni bambino contiene già i germi dell'uomo che diventerà" dichiara il professor Bernard al protagonista ormai adulto).» Eppure sono pensieri che si presentano come quelli d'un ultimo uomo, d'un individuo diretto verso la propria estinzione. "Laddove Camus, scrivendo di fatti ancora in corso, sceglieva d'aprire la sua narrazione con una nascita (la sua) e di dedicarsi al racconto di una ricerca che si auspicava fruttuosa, sembra che Amelio – sapendo come poi sono andate le cose, compres'il tragico incidente d'auto – [abbia dato] al suo film una patina di disillusione, testimoniata dallo spostamento verso la fine della scena della nascita, preferendo lasciare a inizio pellicola la visita di Cormery al cimitero militare in cerca della tomba del padre. Dalla nascit'alla morte, dalla speranz'alla disillusione" (Carlo Griseri). Ps: fosse stato meno strenuo difensore d'uno stile classicissimo, Amelio avrebb'osato inserire in colonna sonora l'unico brano a me noto composto con esplicita e diretta ispirazione a Camus, "Killing an Arab" dei Cure.
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