Ci sono film che non si accontentano di raccontare una storia, ma ambiscono a mettere in scena la Storia, quella che ha segnato le vicende di intere generazioni e contribuito a dare forma al mondo come lo conosciamo oggi. Ci sono film, poi, che tentano un’impresa quasi impossibile: creare un affresco epico e storicamente attendibile che non perda però di vista la dimensione fiabesca delle classiche avventure cinematografiche. Il principe del deserto, ritorno sulle scene di Jean-Jacques Annaud (Sette anni in Tibet) dopo quattro anni di assenza, ambisce proprio a questa grandezza. Mancando il bersaglio.
Tratto da un romanzo dello svizzero Hans Ruesch, Il principe del deserto racconta la storia di Auda (Tahar Rahim), principe arabo diviso tra due fedeltà: quella al padre naturale Amar (Mark Strong), un devoto e irriducibile conservatore, e quella al patrigno Nesib (un Antonio Banderas molto in imbarazzo nella parte), che, ça va sans dire, rappresenta il lato modernista e filo-occidentale dell’Arabia degli anni ’30. Perché il film, nel raccontare la prevedibile parabola di crescita del giovane Auda, vorrebbe anche mostrare le due anime della Mezzaluna fertile ai tempi del boom petrolifero post-Grande guerra: quella che non voleva saperne di cedere terreno ai colonialisti americani e quella che al contrario non vedeva l’ora di fare la doccia nei petroldollari e abbracciare l’opulento stile di vita occidentale. E così, tra un tradimento e una fatwa, Auda si ritrova suo malgrado alla testa di una rivoluzione (quasi) pacifica nel tentativo di ricomporre la frattura fra i due padri e i loro popoli.
Sarebbe potuta essere una fiaba allegorica travestita da avventura vecchio stile – ci sono i viaggi senza speranza, le battaglie sulle dune, le guerriere selvagge che seducono Auda – e invece Il principe del deserto muore nella culla, soffocato dalle sue stesse ambizioni. Se la fabula è classica, l’intreccio è solo banale, da film tv della domenica pomeriggio, e si dibatte tra prevedibili simbolismi (Auda che viene incoronato “profeta” dal suo popolo dopo una presunta resurrezione), dialoghi retorici e un commento sonoro più appropriato a un cartoon Disney. Il tutto affidato a un gruppo di personaggi macchiettistici che comprende tra gli altri: il fratello reietto ma scaltro, il guerriero fedele alla causa, la principessa che osserva il suo amato da dietro le tendine dei suoi appartamenti (ovvero come sprecare Freida Pinto).
Il difetto maggiore di Il principe del deserto, comunque, è la sua assoluta prevedibilità: ogni scena prelude alla successiva in una sequela di “già visto”. È un film quasi rilassante nel suo procedere con il pilota automatico, un viaggio tra dune e petrolio che inizia, prosegue e finisce senza lasciare traccia alcuna.
Mi piace
I paesaggi, ripresi con grande maestria (e un pizzico di maniera) da una “vecchia volpe” come Annaud.
Non mi piace
La scrittura banale e prevedibile. I personaggi caricaturali. La colonna sonora completamente fuori luogo.
Consigliato a chi
Ama la grande avventura in panorami esotici quanto inospitali.
Voto: 2/5
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