Fin dall’inizio degli Anni Novanta, il nome di Aaron Sorkin è stato sinonimo di grande scrittura: che lavorasse a sceneggiature per il cinema (ricordiamo, tra gli altri, Codice d’Onore, The Social Network, per il quale ha vinto l’Oscar alla miglior sceneggiatura non originale, Moneyball e Steve Jobs) o prodotti seriali destinati alla TV (dal capolavoro The West Wing allo sfortunato ma notevole Studio 60 on the Sunset Strip, fino al sottovalutato The Newsroom), lo scrittore di New York ha sempre dimostrato una capacità rara nel donare alla sua scrittura ricca e densa di dialoghi una fitta rete di sottotesti e significati. Un talento che gli ha permesso di essere riconosciuto come uno degli autori più importanti del Cinema americano contemporaneo.
Nel 2017, Sorkin è passato dietro alla macchina da presa dirigendo Molly’s Game, con protagonista Jessica Chastain. Un esordio che, nonostante fosse lungi dall’essere un brutto film, metteva in mostra più la volontà di Sorkin di dimostrare le sue capacità tecniche e di direttore degli attori rispetto all’intenzione di raccontare una storia compatta e scritta alla perfezione come spesso era riuscito a fare in passato.
Il processo ai Chicago 7 la recensione
A soli tre anni di distanza dalla sua prima prova da regista, Sorkin dirige per Netflix Il processo ai Chicago 7, con il quale dimostra di aver imparato molto dalla sua prima esperienza e di aver raggiunto una maggiore maturità registica. Il film racconta del processo (e, attraverso l’uso di flashback, dei fatti che lo precedettero) nei confronti di un gruppo di attivisti accusati di aver incitato una sommossa che portò a un sanguinoso scontro tra dimostranti e Guardia Nazionale durante una manifestazione non autorizzata contro la guerra nel Vietnam in occasione della Convention dei Democratici del 1968 a Chicago.
Come molti film americani di impegno sociale (basti pensare, negli ultimi anni, al magnifico The Post di Steven Spielberg, che non a caso avrebbe dovuto girare il film, prima di cedere il progetto a Sorkin), Il processo ai Chicago 7 prende spunto da un episodio della storia contemporanea statunitense per riflettere su tematiche ancora oggi attuali. Difficile credere che sia un caso che il film venga distribuito pochi giorni prima delle elezioni presidenziali di quest’anno, vero e proprio banco di prova per il futuro dell’America. Davanti alle scene che descrivono la rabbia della gente nei confronti del processo farsa, gestito da un giudice incapace e tendenzioso, è impossibile non andare con la mente alle immagini delle sommosse scatenatesi nei mesi scorsi a seguito della morte di George Floyd causata da un poliziotto. Sorkin, consapevole dell’importanza e del significato degli eventi che mette in scena, sembra quasi voler aprire un dialogo con lo spettatore, invitandolo a non sottovalutare l’importanza del singolo all’interno della società e a non dimenticare quanto sia fondamentale prendere posizione e far sentire la propria voce davanti a uno Stato più attento a tutelare lo status quo che la giustizia e il suo popolo.
Proprio perché l’attenzione di Sorkin risulta concentrata sul contenuto della storia, la messa in scena risulta classica e rigorosa, priva di inutili virtuosismi. A farla da padrone, come c’era da aspettarsi, è il numeroso e variegato cast: da Eddie Redmayne a Sacha Baron Cohen, da Mark Rylance a Jeremy Strong fino ai veterani Michael Keaton e Frank Langella (solo per citarne alcuni), tutti mettono il loro talento a disposizione di un film che non solo fa riflettere ma riesce anche, nonostante le tematiche, a emozionare e intrattenere come soltanto il grande cinema hollywoodiano riesce a fare. Non è difficile immaginare Il processo dei Chicago 7 come uno dei possibili protagonisti nella corsa all’Oscar come miglior film del 2020.
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