“Il professore e il pazzo” (The Professor and the Madman, 2018) è il primo lungometraggio dello sceneggiatore-regista di Teheran Farhad Safinia (noto come P. B. Shemran).
Opera prima, sceneggiatura statuaria, ambienti silenti e voci altisonanti.
Storia vera che parte dal 1872 in quella Oxford simbolo di bella cultura, rigorosità, onore e rivalità con altri e alti mondi accademici.
La verità di ciò che si vede pare diluirsi in trucchi dei visi, in barbe allungate, in corpi poco sinuosi e in una consorte sagace che tira avanti il cruccio di un marito stupito dalle sue forze innate.
Incontro tra un professore pazzo e un pazzo professore: il discernimento tra corpi e vite, borghesi e pezzenti, linguaggio e pochezze, volumi e miserie.
È la corsa fuori tempo di un duo anomalo: un letterato senza laurea e uno straniero senza dimora. Due opposti che coincidono in una ‘Università’ fatta di parrucche, aforismi massimi, lezioni dirompenti e sapere per pochi. Ma per raggiungere l’impero di tutti i paesi dove l’inglese è la lingua madre si può e si deve scrivere il voluminoso vocabolario di tutte le parole, i termini e i linguaggi conosciuti. Lettera per lettera, rigo per rigo e tomo per tomo. I sette anni sono il limite massimo: tutto va oltre e le didascalie finali spiegano ciò che è avvenuto e quando il tutto è stato concluso.
Film classico, impostato, statuario, parlato e intriso: pieno di rapporti, umori e tantomeno di livori e fermenti letterari.
Una pellicola dove il gusto al piacevole e al dilettantismo viene, peraltro si soggiunge che la composizione della storia appare coinvolgente negli argomenti, un po’ nella successione episodica e nella regia non sempre avvolgente e piena delle cose raccontate.
Una finezza di composizioni e di alfabeti che si perdono in dicotomie lunghe e riprese aggiustate; pare qualcosa di troppo racchiuso, contenuto, glassato e freddino. Sbavature e scompensi, finezze e lungaggini si notano e non aggiustano il tiro.
Nonostante l’argomento manca la spinta verso l’alto, di film a posteriori, di slancio e di morbidezza narrativa. Tutto appare bello ma mal costruito o, meglio, tutto appare bloccato e non ben amalgamato. Si legge della produzione faticosa e della volontà di Mel Gibson (lui australiano) di fare il film (donato al suo fidato sceneggiatore di ‘Apocalypto’). I volti, le barbe allungate e molti musi paiono faticosamente duri sul set: si saranno divertiti a farlo ma oltre lo schermo non si ‘gusta’ pienamente.
L’inglesismo, la beltà dell’impero, il colonialismo, la Regina, i modi e il vezzo ad ogni costo giocano un ruolo pieno di intenti, ma il sarcasmo, l’ironia, il raccontare la storia universitaria più prestigiosa tende al compiacimento fine a se stesso e alla lungaggine melensa di rivalità meste e minime
Mel Gibson (James Murray): appare troppo in se, voluminoso archetipo, lettu(e)ra incompleta e originalità trattenuta, fin troppo dentro il personaggio quasi da non essere credibile. Pur tuttavia rimane il volto corrugato e una barba finta nel bel mezzo di un visionario mondo da scrivere in ordine alfabetico (cosi in ‘arte’ da bloccare tutto il linguaggio che ne consegue).
Sean Penn (William Chester Minor): irrequieto e irriconoscibile, sconquassato e scheletrico, umido e poco salutare. Il vile gioco della peluria facciale scansa ogni destino per un bacio di amore incompreso (mentre il passo d’addio rimane un disegno già scritto tra il professore dotto e lo scribano pazzo).
Da dire che il cast è ben variegato ma lo sviluppo non apre alla ribalta personaggi importanti (dispiace dire che la presenza di John Boorman nella scrittura non risolleva il tutto).
Regia: liscia e levigata, patinata e oziosa, parsimoniosa come nelle vite a due di pazzi angosciati.
(e si legge dopo le diatribe legali di produzione anche la regia ha avuto problemi e passaggi).
Voto: 6,5/10 (***). -voto per l’idea centrale-