“Il traditore” (2019) è il ventiquattresimo lungometraggio del regista-sceneggiatore piacentino Marco Bellocchio.
Film documento che percorre dalla fine degli anni settanta fino…ai nostri giorni. L’incipit è la festa di Santa Rosalia del 1980 a Palermo: mentre le luci notturne illuminano attorno dentro casa la mafia balla, canta e si ritrova in grande spolvero. La guerra mafiosa tra Corleone e Riina con Il capoluogo siciliano e Buscetta entra nel vivo di ammazzamenti e uccisioni continue. Il boss (dei due mondi) visto il pericolo fortissimo decide di espatriare in Brasile. Una lezione amara per il boss con la famiglia (la sua) al primo posto in tutto. Un inizio ‘coppoliano’ dove i padrini ci sono e il Capo attira a se ogni movimento di camera e sguardi avvinghiati.
La differenza fra i due in ‘guerra perenne’ mentre Riina pensa al potere e poi alle donne, Buscetta pensa prima a fottere e poi al potere. Una differenza sostanziale che ribadisce durante l’interrogatorio di fronte a Giovanni Falcone in tempi futuri.
Un conteggio in vaso a sinistra di tutto il sangue mafioso, quasi un caterpillar il susseguirsi numerico che mette lo spettatore in grande ansia e in un luogo ‘di bravi ragazzi’ sempre e perennemente ammattiti di potere e soldi. Buscetta entra nello schermo vestito di bianco, quasi una ‘febbre’ della notte siciliana che aspetta in riva alla spiaggia i fuochi pirotecnici della Santa a cui tutti cantano con devozione e quasi sacrilego immedesimazione.
Ma il figlio è la discordia, da trascinare, da schiaffeggiare, lì solo sul bagnasciuga in preda ad un orgasmo di ‘sogno’ da persona strafatta. Ecco che il Capo vuole fare festa ma l’interno vicino e lontano puzza di guai e di cadaveri. Sono ‘eccellenti’ per le cosche in lotta perenne. Solo un fuga e non per sempre allontana i problemi al Tommaso Buscetta di Palermo.
Un inizio sconquassato e forte dove la famiglia mafiosa si compatta, si armonizza e tiene lontano ogni destino amarissimo. La morte non fa paura ma lo scorrere del sangue cambia i cestini di un ‘pentito’ che diventerà eccellente per lo Stato e gli arresti che ne conseguiranno.
Una pellicola roboante e silenziosa, scarna e di parola, vistosa ed essenziale. Un racconto pieno di giochi dalla centralità mafiosa palermitana, corleonese, nel mercato di droga, del potere e di quello che Cosa Nostra ha rappresentato. I nomi ci sono tutti, conosciuti, conosciutissimi, capi e cupole varie. Da Calo’ a Contorno, da Badalamenti a Bagarella, da Liggio a Bontade, da Buscetta a Riina.
Ecco che il trascorso dei tanti attorno al palermitano Buscetta gira l’intera vicenda, il cosiddetto traditore. Il pentito o meglio quello che ha scoperchiato la grande cupola e fatto arrestare decine e decine di mafiosi (le didascalie alla fine danno il summa di quello che è avvenuto). Come la morte di Buscetta ‘nel suo letto’ come egli desiderava (lui che non aveva paura di morire).
La storia si racconta senza tante spiegazioni e giri, si evidenzia con i fatti le poche alchimie di finzione e una ripresa ferma, piatta e intensa. La storia del maxi-processo resta dietro di noi con voci, fumi, spari, confronti, tensioni, politica e saturazioni ancora da schiodare, siluri ancora da scoprire e misteri sempre in coma. E tutto il cerchio ‘mafioso’ che è in scena è un brivido, un culmine e una chiosa volgare del ‘nostro paese’. È il risveglio della prima Repubblica (nel volto attoriale appuntito, fermo, tetro e lugubre di Andreotti) che maneggia dentro i volti e le arguzie simili di un palazzo contro e di un’antimafia che ancora ricorda appassionatamente l’efferatezza della strage di Capaci. Proprio in questi frangenti l’anniversario.
Il film di Bellocchio diventa specchio greve e amorfo di una società che ancora è addormentata sulle stragi irrisolte. E si deve dire che ha qualcosa di forte interiormente nel raccontare epiloghi, morti e tragedie in un susseguirsi teatrale di grande impatto.
Il corpo e i movimenti di Buscetta interpretato da Pierfrancesco Favino sgombrano le dovizie di particolari importanti: la camminata goffa, l’epa magniloquente, gli occhi appassiti, le labbra piene, le sigarette intense e i posteriori mesti contro una donna di piacere. Una veridicità efficace e aderente, spaventosamente intensa; quindi una performance aderente, astratta, corporea e mai viziata da compiacimenti. Un ruolo che regge con grande fermezza per l’intero film e che vale la sua carriera e oltre (e il biglietto). Si ricorda che l’attore ha voluto con forza questo ruolo (nonostante qualche sbavatura nei provini….come si legge da interviste di questi giorni dello stesso Favino). Personaggio in auge, ambiguo e pieno di foschie come di ‘nascondimenti’ mai diradati.
Il suo stare non regge confronti con tutti i bravi interpreti ad iniziare da Luigi Lo Cascio (Salvatore Contorno) che prende il bavero della Sicilia per distruggere con la sua recita scorretta l’addentro della vita mafiosa, Fabrizio Ferracane (Pippo Calo’) che ascolta il de prufundis della cosca corleonese; Nicola Calì (Totò Riina) che ancora ci spaventa. Asciutta e scavata l’interpretazione di Fausto Russo Alesi nel ruolo di Giovanni Falcone. Gli quasi i interrogatori con Buscetta appaiono di una semplicità importante e di una sottrazione di finzione.
Spaventa l’attentato di Capaci visto dall’interno dell’auto mentre tutto sembra tranquillo, ordinario e normale. Una bomba dentro lo Stato e dentro di noi. Una sequenza che apre lo schermo. E lo stesso Falcone ricorda (anche) nel film che ha più paura di Roma che di Palermo (mentre gli interrogatori con Buscetta si concretizzano in centinaia di pagine).
Musiche di Nicola Piovani che alimentano la pellicola, estenuanti e corpose, tetre e uditive.
Regia piena e compatta, discreta e ammantata da puro realismo; cinema civile, rigoroso e lucido.
Voto: 8/10 (****).