Il traditore, la recensione
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Il traditore, la recensione

Un film suggestivo e profondamente morale, quello di Marco Bellocchio con Pierfrancesco Favino, che assume lo sguardo del pentito per raccontare anni tragici e decisivi della nostra storia: una lezione di regia e recitazione

Il traditore, la recensione

Un film suggestivo e profondamente morale, quello di Marco Bellocchio con Pierfrancesco Favino, che assume lo sguardo del pentito per raccontare anni tragici e decisivi della nostra storia: una lezione di regia e recitazione

Il traditore

1984: Tommaso Buscetta, il “Boss dei Due Mondi”, viene estradato dal Brasile e fa ritorno in Italia, dove lo attende la guerra scatenata da Totò Riina e il clan dei Corleonesi per il controllo del traffico di droga. Gli hanno già ammazzato un fratello e due figli e il prossimo è destinato ad essere lui. Salvato in extremis da un tentativo di suicidio, decide di vendicarsi (e salvarsi la vita) iniziando a collaborare con la giustizia: il suo referente ed emissario dello Stato è Giovanni Falcone. Buscetta diventa così il più celebre pentito della storia italiana, innescando una serie di rivelazioni che porteranno al celebre maxi-processo a Cosa Nostra del 1986: 475 imputati e oltre 200 avvocati radunati in un’aula enorme che sembra il Colosseo. Tra di loro non c’è Riina, che nel 1992 progetterà la famigerata Strage di Capaci, in cui perderà la vita proprio Falcone.

In seguito a quei fatti Buscetta alza ulteriormente il tiro e punta il dito contro le connivenze tra Stato e Mafia: accusa Salvo Lima e soprattutto Giulio Andreotti, diventando un teste chiave nel processo per associazione mafiosa e per l’omicidio Pecorelli. Incredibilmente viene screditato per una questione che non ha niente a che vedere con i crimini di cui si è macchiato: viene fotografato in crociera assieme alla moglie e diventa un simbolo di ipocrisia e spreco di soldi pubblici. Andreotti supera indenne il processo e lui finisce la sua vita a Miami, in attesa di una vendetta di Cosa Nostra che non arriverà mai. Muore di cancro a 71 anni, in esilio.

Questi i fatti raccontati dal Traditore. Il titolo si riferisce al tradimento del pentito nei confronti di Cosa Nostra, ma Buscetta quell’appellativo lo rifiutò sempre: nella sua visione, più volte ripetuta ai giudici, quelli che avevano tradito la storia e le regole della mafia siciliana erano i corleonesi, assassini spietati che non rispettavano i patti e non si fermavano di fronte a niente, uccidendo innocenti e ragazzini. Un punto di vista che il film in definitiva sposa: aiutato dalla incredibile interpretazione di Pierfrancesco Favino, che restituisce un Buscetta orgoglioso – ma fragile e spaventato – Bellocchio costruisce un racconto storico che ha i caratteri dell’apologia, cioè che assume su di sé il peso di una parte.

È un rischio che ha però una ricaduta cinematografica potente: le parole di Buscetta, i suoi dialoghi con Falcone, le dichiarazioni e le scaramucce in tribunale, non sono all’origine di un dibattito (è affidabile? è degno di sedere lì? starà mentendo? – sappiamo che ha ucciso, ma questa non cambia nulla), quanto piuttosto di un’epifania del passato, come se improvvisamente, e definitivamente, quel momento di storia venisse scritto, assieme a tutti i futuri a cui non ha dato seguito. Per questo il film è pieno di malinconia, perché è il racconto di una sconfitta, di una dimenticanza collettiva, di una ferita rimarginata senza una guarigione.

D’altra parte Il traditore è un film profondamente morale e narrativamente compatto, distante dalla spettacolarizzazione seriale e dalla grandeur criminale che hanno fatto la fortuna di Gomorraogni parola punta a un conflitto di coscienza e a una visione del mondo, invita ad assumere una posizione. In tutto questo la cosa più emozionante (almeno per un cinefilo) è che – come in Buongiorno, Notte, ma qui perfino di più – il cinema di Bellocchio riesce ad essere letterale senza però essere realista. È evidente che c’è stato uno studio minuzioso dei fatti, dei materiali d’epoca e delle carte processuali a monte della lavorazione – senza considerare le interpretazioni mimetiche e il siciliano strettissimo parlato dai personaggi -, e tuttavia nella messa in scena c’è sempre uno scarto estetico, c’è sempre un’invenzione, il film fa sempre un passo in là.

Lo vediamo non solo nelle sequenze oniriche o di pura suspense (come nel ristorante a Miami, o nel finale sul tetto), ma anche in quelle teoricamente più documentate, come nel caso del maxi-processo, che poi è il cuore pulsante dell’opera. Qui il tempio della giustizia, mediato dallo sguardo di Bellocchio, si fa via via teatro in maschera, farsa regionale, bestiario criminale, arena per gladiatori, perfino distopia sci-fi. Qui si compie il patto: le parole assumono su di sé la (una) verità, le immagini si prendono l’onere del Cinema. Un cinema eccezionale.

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