1946. Amerigo (Christian Cervone) ha otto anni e non si è mai allontanato da Napoli e da sua madre Antonietta (Serena Rossi). Il suo mondo, fatto di strada e povertà, però sta per cambiare. A bordo di uno dei “treni della felicità” del Partito Comunista passerà l’inverno al nord, dove una giovane donna, Derna (Barbara Ronchi), lo accoglierà e si prenderà cura di lui. Accanto a lei Amerigo acquista una consapevolezza che lo porta ad una scelta dolorosa, che cambierà per sempre la sua vita. Gli serviranno molti anni per scoprire la verità: chi ti ama non ti trattiene, ma ti lascia andare.
Dal bestseller di Viola Ardone, pubblicato nel 2019, la regista Cristina Comencini ha tratto un film che a un anno di distanza non può non ricordare da molto vicino il taglio produttivo e l’impostazione complessiva di C’è ancora domani, l’esordio alla regia di Paola Cortellesi che aveva aperto proprio la Festa del Cinema di Roma – dove Il treno dei bambini figura nella sezione Grand Public –, per poi rivelarsi un clamoroso trionfo al box office (in comune i due film hanno anche la coppia di sceneggiatori, Furio Andreotti e Giulia Calenda, figlia della regista, ai quali si affianca Camille Dugay, nipote di Cristina e figlia della sorella Francesca).
In questo caso non siamo a Roma ma in una Napoli del dopoguerra, nella quale il film ci catapulta immediatamente, dopo un prologo in cui vediamo Amerigo adulto, diventato nel frattempo un violinista (a interpretarlo, in poche scene, c’è Stefano Accorsi, con delle atmosfere un po’ alla Nostalgia di Martone). La città partenopea è inquadrata tra bombardamenti e piccole attività commerciali, tra miseria e semplicità, ben rispecchiando il clima dell’epoca non senza qualche digressione cartolinesca e sopra le righe (i discorsi per strada e sui balconi, il santino del Re ancora esposto da una donna come un monito).
Ben presto impariamo a conoscere le sorti di una donna, interpretata da Serena Rossi con il classico approccio scavato e popolano da qualche parte tra Sophia Loren e Anna Magnani, che si arrangia come può, vendendo caffè nel retrobottega di casa sua e concedendo anche piccoli favori sessuali. Ma ciò che più conta, ne Il treno dei bambini, è ovviamente lo sguardo su un’infanzia negata che si fa portavoce dell’intero spaccato storico, chiamato a illuminare una prassi dell’epoca riguardante la gestione dei bimbi in tenerissima età probabilmente non così nota.
Il controcampo più commovente de Il treno dei bambini è quello che riguarda il precedente figlio di Antonietta, alla quale lo stato di indigenza ha già sottratto un altro bambino in tenerissima età, mentre gli slittamenti di senso più interessanti finiscono inevitabilmente col riguardare le contrapposizioni e le differenze tra le due madri, che non potrebbero essere più diverse: il personaggio di Ronchi, che recita con accento modenese, vive infatti in un clima di maggiore emancipazione lavorativa e personale che però, nonostante qualche autonomia femminista in più, non ha ancora rigettato del tutto il giogo del patriarcato e delle sue coordinate storiche dell’epoca.
Il film ha un approccio molto semplice e popolare, volendo anche da prima serata Rai (ma la confezione è di più alta levatura, così come le interpretazioni di Rossi e Ronchi), non osa sul piano linguistico né ha gli azzardi pop che hanno contributo a decretare il successo e la ricaduta iconica di C’è ancora domani. Comencini, che torna dietro la macchina da presa nello stesso anno in cui la sorella Francesca ha realizzato il bellissimo e struggente film sul padre Luigi, Il tempo che ci vuole, ha però una totale, sincera e spassionata aderenza alle sorti del suo piccolo protagonista, magnetico e ben scelto, che si ritroverà sospeso non solo tra due madri ma anche, ovviamente, tra due Italie, una più di retroguardia e l’altra più in rampa di lancio verso la modernità e il futuro.
Foto: Palomar/Netflix
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