Maria (Pina Turco) è la Caronte dei vivi. Non trasporta anime ma corpi gravidi, donne costrette a vendere figli non ancora nati. Viaggia su una barchetta la notte, per non farsi vedere, e naviga il Volturno, quel fiume che ha dato il suo nome alla città che vi s’affaccia. Per le sue donne nessuna moneta da mettere sotto la lingua, non c’è niente da salvare, solo una busta piena di soldi da nascondere in fretta sotto la giacca.
I soldi arrivano da una dama ingioiellata dipendente dall’eroina, signora in un panorama di macerie, immondizia e rassegnazione. Anche Maria è rassegnata, procede meccanica nella sua routine, cappuccio calato sulla testa di capelli lunghi come quelli di un guerriero che non è stato ancora sconfitto. Procede a passi lenti, fa quel che deve fare, ha una madre da accudire, soldi da incassare, un pitbull da accarezzare sotto il muso. Scoprirà di avere l’unico vizio che in un posto del genere, terra di peccatori e fantasmi (il 50% degli abitanti di Castel Volturno sono irregolari), può davvero ucciderti: la speranza. E la speranza arriva proprio da dove ci si aspetta, da un corpo pieno di cicatrici visibili e invisibili, che inizia a crescere e mutare. Eccola la speranza più essenziale, quella della vita stessa.
Dopo Indivisibili Edoardo DeAngelis torna a raccontare la periferia campana che è attracco di disperati. Se lì la miseria doveva fare i conti con la santità, e la salvezza era miraggio ultraterreno, qui è il corpo l’ultimo baluardo per la redenzione. Il percorso per raggiungere la meta segue però lo stesso criterio: una lirica dei miserabili che si compone di simbolismi esibiti. Mancano le sorprese ma rimane l’occhio dell’autore, attento alle contraddizioni, e deciso a fare, ancora una volta, del territorio il protagonista più esaustivo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA