Un grande e lussuoso magazzino espone un abito rosso di pregevole fattura, sontuoso e raffinato, che le commesse, con il loro atteggiamento altero e sofisticato, sono solite ritagliare addosso alle clienti per sollecitarne l’acquisto. Se lo si indossa, non lo si fa senza conseguenze.
Quello del cineasta inglese Peter Strickland e del suo ultimo film, In Fabric, presentato al Torino Film Festival 2018 nella sezione After Hours, è puro modernariato cinefilo: una raccolta di suggestioni orchestrata come fossimo dentro un catalogo di oggetti da esporre in bella vista, per farli risaltare di suggestioni e vederli risplendere di luce propria (meglio se inquietante e malata).
Una collezione di rimandi e citazioni che guardano direttamente al genere prediletto dal regista, il giallo, meglio ancora se il giallo all’italiana che strizzi l’occhio alla cinematografia di Dario Argento (un terreno di confronto che Strickland aveva già esplorato nell’ottimo Berberian Sound Studio, rifacimento basso di Blow Out di Brian De Palma con protagonista Toby Jones).
Preso secondo quest’ottica, il film offre due ore piene di smaliziato divertimento e il suo disincanto ironico e provocatore coincidono sempre con una forma distacca e paradossale di cinismo: una vena beffarda che Strickland, a suo agio dentro idee e sistemi chiusi, dà l’idea di non voler mollare e perdere per strada, costi quel che costi. Questa ostinatezza dà a In Fabric una natura monolitica, priva di vie d’uscita e chiaroscuri, ma anche la possibilità di un godimento a metà tra il guilty pleasure e la pop art.
A produrre non a caso c’è Ben Wheatley, altro alfiere della cattiveria britannica post-Brexit passato in questi giorni a Torino col suo nuovo Happy New Year, Colin Burstead, e a stupire è soprattutto il manierismo esasperato di Strickland, bravissimo soprattutto nel gestire e nel lavorare i suoni, mai lasciati al caso e puntualmente al servizio di una fiaba nera e di una horror comedy equamente divisa tra fantasmi di morte ed estetica commerciale.
Il risultato finale è simile a un amplesso continuamente rimandato ed estremamente bizzarro, che può sembrare solo e soltanto un divertissement ma nel quale la protagonista Sheila (Marianne Jean-Baptiste) , donna di colore bonaria e forte, imbocca un tunnel degli orrori raffigurato come fosse il più serio degli sberleffi.
Il tutto in uno sgargiante incubo sul mondo della moda che, dopo The Duke of Burgundy, conferma quanto Strickland sia un talento scriteriato e fuori dagli schemi, da prendere seriamente in considerazione anche quando si sarebbe tentati dal non prenderlo del tutto sul serio.