In guerra, la recensione del film di Stéphane Brizé con Vincent Lindon
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In guerra, la recensione del film di Stéphane Brizé con Vincent Lindon

Il commosso affresco di una classe operaia dura a morire, con un sensazionale Vincent Lindon

In guerra, la recensione del film di Stéphane Brizé con Vincent Lindon

Il commosso affresco di una classe operaia dura a morire, con un sensazionale Vincent Lindon

In guerra, la recensione
PANORAMICA
Regia (4.5)
Interpretazioni (4)
Sceneggiatura (4)
Montaggio (4)
Fotografia (3)

Dopo aver promesso a 1100 operai che i loro posti di lavoro sarebbero stati salvi, i dirigenti di una fabbrica decidono di punto in bianco di chiudere bottega e di mettere alla porta un miriade di loro dipendenti, che vengono licenziati in blocco. Ma Laurent Amédéo (Vincent Lindon), uomo ferito e combattivo, non vuole chinare il capo al cospetto di questa decisione disumana e si batterà, in prima linea e con tutte le sue forze, affinché venga fatta giustizia.

È la legge del mercato a fare la misura di un uomo? Il cinema del regista francese Stephane Brizé si era già confrontato con questo tema nel 2015 con La loi du marché, con protagonista il solito, gigantesco Vincent Lindon, attore dotato di una potenza mimica e di un’empatia istintiva che hanno pochi eguali. In quel caso un uomo cinquantenne, Laurent, si trovava a fare i conti con i morsi della crisi, finendo per fare la guardia di sicurezza in un supermercato.

Brizé, forse uno dei più decisivi registi realisti della sua generazione, lo osservava in maniera impercettibile, scrutandolo di spalle, ai margini dell’inquadratura, quasi mai in pieno volto. Un voto di castità, una distanza etica. In In guerra è tutto il contrario. Il corpo di Lindon, sindacalista appassionato e pieno di ardore, disposto a farsi voce e baluardo di tantissime persone, è sempre esposto e sulle barricate, al cuore dei conflitti, nel nervo dell’azione.

Eppure non è l’unica faccia che impariamo a conoscere, perché Brizé riesce nell’impresa di creare un tessuto di volti e di uomini dalla tenuta espressiva miracolosa. Il commosso affresco di una classe operaia dura a morire, contemplativo e allo stesso tempo accorato. Fenomenale, prima di ogni altra cosa, nel restituire ansie e disillusioni, istinti e bisogni di un tempo frastagliato e inquieto, che con la proprio dittatura dell’Io ha trasformato le battaglie per i diritti, a forza e con violenza, in un rumore sordo e lontano.

Quegli scontri in In guerra si riprendono invece tutta la scena, tra frizioni e confronti, duelli verbali e messe in discussione. Il cinema di Brizé non giudica mai ma problematizza, è un disarmante atto di umiltà rispetto alla complessità della realtà, utilizza i codici del reportage e del documentario plasmandoli e adattandoli in maniera mimetica al cinema di finzione.

I dialoghi del film, non a caso, sono così tanto interiorizzati dagli attori, talmente in simbiosi con le riprese e i punti macchina scelti dal regista, da dare l’impressione di non essere nemmeno filmati, di consumarsi mentre noi li guardiamo, colti nel loro farsi. Con una sensibilità estetica disarmante, che quando scende sotto il tessuto fittissimo delle parole commuove doppiamente, producendo degli squarci da pelle d’oca.

Come quelli avallati, ad esempio, dalla formicolante colonna sonora di Bertrand Blessing, in bilico tra rock ed elettronica, trascinante e allo stesso tempo funerea, ma con soavi aperture di speranza. Una marcia di amore e rabbia che rispecchia a meraviglia la sensibilità di In guerra, tanto è raccordata ai sentimenti che lo animano. Un tappeto sonoro efficace come se ne sentono di rado, che sale di tono nota dopo nota. E, quando si infiamma, lo fa in maniera impercettibile, improvvisa, inesorabile. Proprio come il film. 

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