Si dice che il cinema si basi su intuizioni, che basti una sola idea brillante per fare un grande film. E che questo sia vero soprattutto per la fantascienza. Una creatura aliena che infesta un’astronave. Un essere in grado di assumere la forma delle sue prede. Una società in cui i libri sono proibiti. Spunti semplici, intorno ai quali costruire storie indimenticabili.
Ogni regola, d’altra parte, ha la sua eccezione: vi presentiamo dunque In Time, quarto film da regista del paladino della sci-fi intelligente Andrew Niccol (Gattaca). Che si regge su un’intuizione non certo originale – l’aveva già sviluppata, e meglio, Harlan Ellison in «Pentiti, Arlecchino!» disse l’uomo del tic-tac – ma affascinante: in un futuro più o meno lontano, l’umanità ha smesso di invecchiare. Al compimento del venticinquesimo anno, però, scatta un countdown; non è difficile immaginare cosa succeda quando arriva a zero. Il tempo diventa dunque moneta preziosa: lo si può spendere per comprare casa, un caffè, pagare il casello in autostrada, e lo si riguadagna lavorando.
L’idea di monetizzare i secondi ed eliminare il decadimento fisico ha tre effetti, sul mondo del film e sul film stesso. Primo, ricchezza = longevità, e proletariato = sfidare la morte ogni giorno per la diaria: è così che incontriamo il protagonista Will (Justin Timberlake), un operaio di buon cuore involontariamente coinvolto nella scomparsa di un centenario/miliardario, il quale gli lascia in eredità tutto il suo tempo prima di togliersi la vita. È questo ribaltamento delle sue condizioni che mette in moto gli eventi del film. Secondo, il trucchetto del non-invecchiamento consente a Niccol di inventare alcuni cortocircuiti interessanti: difficile non rimanere spiazzati la prima volta che compare la madre di Timberlake, cioè Olivia Wilde.
Il terzo effetto è il meno gradito: avendo tra le mani un’idea esplosiva, Niccol si disinteressa della scrittura vera e propria, preferendo giocare con le infinite variazioni di «il tempo è denaro». Variazioni predicatorie, prima di tutto: la contrapposizione tra ricchi e poveri, tra morenti e immortali, diventa un problema politico, e metafora non troppo velata del momento attuale. Il problema è che Niccol è troppo interessato a mettere questo concetto in bocca a ogni suo personaggio, compresa la ricchissima Sylvia (Amanda Seyfried), che ovviamente si innamora di Will e altrettanto ovviamente abbandona il tetto paterno per dedicarsi a riparare le ingiustizie. Il risultato è una sequela di monologhi da imbonitore di folle – «Nessuno dovrebbe essere immortale, se per farlo qualcun altro deve morire» –, intervallati da sequenze d’azione mal coreografate e inseguimenti in stile Starsky & Hutch: alle calcagna dei due piccioncini, infatti, c’è anche un poliziotto (ottimamente interpretato da Cillian Murphy) che odia il sistema ma gli è, come da tradizione, incrollabilmente fedele.
Ma Niccol indulge anche nelle variazioni edonistiche sul tema, ed è qui che perde la bussola: dopo essere venuto in possesso di qualche secolo di vita, infatti, Will decide di fregare il sistema dall’interno, e si trasferisce nei quartieri alti, dove ci viene mostrata la vita dei ricchi, tra partite di poker in cui ci si gioca millenni e ristoranti di lusso. A questo punto, forse abbacinato anch’egli da tanta opulenza, Niccol spreca almeno tre quarti d’ora di film dietro agli stravizi di Will, che pare essersi dimenticato del suo intento sovversivo. E quando finalmente rinsavisce, il film ha ormai perso mordente: ciò che si doveva dire era già stato spiegato nei primi venti minuti, e il finale (Bonnie & Clyde incontra Occupy Wall Street) non smuove più nulla se non qualche sopracciglio.
Mi piace
L’idea di fondo è forte. La caratterizzazione del mondo operaio nei primi minuti del film è efficace.
Non mi piace
La scrittura frettolosa e confusa. L’evidente intento predicatorio. Alcune incongruenze nella trama.
Consigliato a chi
Ama la fantascienza intelligente al punto da andare oltre gli evidenti difetti di scrittura.
Voto: 2/5
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