Per una mente brillante come quella di Robert Langdon, esperto simbolista dell’università di Cambridge, la lucidità è fondamentale. Comprensibile, dunque, che risvegliarsi nella notte in un ospedale fiorentino, con mal di testa violenti, allucinazioni spaventose e – soprattutto – un’amnesia che annebbia le ultime 24 ore, sia un minimo destabilizzante. Ma è questa la vera, grande novità di Inferno: la crisi del personaggio di Tom Hanks, che prima di risolvere il nuovo mistero in cui è stato trascinato, è chiamato a ricomporre i pezzi di un puzzle di cui lui stesso è protagonista.
Nel film di Ron Howard, terzo adattamento di un romanzo di Dan Brown dopo Il codice Da Vinci e Angeli e demoni, il rapporto tra protagonista e realtà è costruito su situazioni tematiche inedite per la saga e di stampo piuttosto classico, perché particolarmente sfruttate, per esempio, nel noir anni Quaranta, che vedeva nella perdita di memoria il simbolo della debolezza dell’eroe e delle sue difficoltà a relazionarsi con spazio e tempo. Langdon è tormentato da flashback sbiaditi e visioni di scenari apocalittici che lo colpiscono nel bel mezzo di soluzioni di anagrammi o di semplici conversazioni. Si tratta di interruzioni, di sospensioni del racconto che sottolineano da un lato la sua instabilità e dall’altro il suo continuo oscillare tra presenza e assenza, lucidità e confusione. Senza dimenticare che per quasi due terzi del film vive da uomo in fuga, braccato da sicari e agenti governativi che cercano o di eliminarlo o di servirsi della sua conoscenza.
È un giallo inserito in una dimensione di incertezza che avvolge anche i personaggi che circondano il professore, nessuno dei quali dotato di contorni ben definiti e perciò difficile da inquadrare. L’aggiunta di tutti questi elementi rende più coinvolgente l’intreccio e l’interpretazione dei tanti indizi, stavolta sparsi per Firenze (esaltata a ogni inquadratura), Venezia e Istanbul, non è più così automatica come in passato – Langdon sbaglia, torna sui suoi passi, arranca nel suo territorio -.
Se da una parte, dunque, il film cerca di ricostruire quanto successo al suo protagonista prima del risveglio, dall’altra resta fedele alle caratteristiche da thriller d’inseguimento dei capitoli precedenti: l’azione, infatti, si srotola in una frenetica corsa contro il tempo per sventare il folle piano di un eccentrico miliardario (Ben Foster), convinto che la diffusione di un virus letale, potenzialmente in grado di dimezzare la razza umana, sia l’unico modo per arrestare la sovrappopolazione terrestre e porre fine ai danni irreparabili che sta causando all’ambiente.
Che la natura dell’intero franchise sia anche commerciale non è un mistero, ma con Inferno Ron Howard in un certo senso rinnova la sua personale interpretazione della saga di Brown e si dimostra pronto a replicare il successo di Il codice Da Vinci e Angeli e demoni: film lineari, in cui alla fine tutto quadra, ma che vantano di un mostro sacro come Hanks, a cui il pubblico è da sempre affezionatissimo, e di quella dimensione da bockbuster che da sola garantisce intrattenimento. Quasi un “vincere facile”, ma giocato con le carte giuste.
Mi piace:
La crisi di Robert Langdon, che rende più avvincente la soluzione dell’enigma.
Non mi piace:
Il film segue lo stesso svolgimento dei film precedenti.
Consigliato a chi:
Ai fan delle visioni cinematografiche di Ron Howard dei romanzi di Dan Brown.
Voto: 3/5
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