Insidious è una delle saghe horror del cinema contemporaneo più convincenti sotto il profilo commerciale: non è un caso che Insidious: L’ultima chiave abbia raddoppiato gli incassi rispetto al capitolo precedente, un dato che sicuramente dice più di mille parole e che stavolta è indicativo anche di un approccio capace di rilanciare le sfide interne al progetto, di fare meglio, anche sul piano della qualità, di quanto raccolto nei due precedenti episodi, non all’altezza forse dell’impatto del primo film.
Il ritorno di Lin Shaye nella parte della dottoressa Elise Rainier in questo film diretto da Adam Robitel, valente allievo di casa Blumhouse allevato come sceneggiatore e non solo in progetti precedenti, coincide stavolta con un viaggio alle origini della saga: siamo di fronte a una vera e propria origin story in cui l’infanzia di Elise viene sviscerata per risalire alle sue origini di parapsicologa, in un tempo, il 1954, in cui una crescita corredata da presenze spiritiche affamate di morte faceva il paio con una violenza insita nel nucleo familiare della bambina.
Una famiglia accostata a sua volta, non a caso, a un carcere, che vediamo nel prologo, e a un’età buia della storia americana, all’insegna del sospetto indiscriminato verso l’Altro: non solo nell’Altrove orrorifico in cui fanno capolino gli spettri mostruosi dei colpevoli e delle vittime ma anche nelle pieghe della Storia, sembrano suggerirci gli autori, fa capolino un’alterità che atterrisce e dalla quale ci si guarda bene. Un’oscurità fitta che non si può diradare.
Sebbene la prima parte del film sia collocata in un passato abbastanza remoto e il resto è ambientato invece poco prima del primo episodio, il quarto capitolo ha nel complesso una sua compattezza che lo tiene al riparo dalle secche in cui era precipitata l’evoluzione della storyline (con dei capovolgimenti temporali abbastanza risibili) e allo stesso tempo lo ancora a un’esplorazione delle atmosfere che hanno dato luogo al primo film del 2010 con protagonisti Patrick Wilson e Rose Byrne, riavvolgendo il nastro della paura e delle ossessioni.
Insidious: l’ultima chiave non è esente dai passaggi telefonati, dai sobbalzi telecomandati e da certe meccanicità cui l’horror mainstream contemporaneo si abbandona con fin troppa disinvoltura, ma è un film che , a tutti gli effetti, gioca in casa: una familiarità che è la stessa con cui Elise deve fare i conti inoltrandosi nella sua stessa dimora. E non si può che sentirsi a casa, dopotutto, se si è fan dell’horror e se al timone c’è Jason Blum, produttore che lavora sulla serialità del soprannaturale coccolando i suoi tanti fan con prodotti talvolta elementari o alimentari, c0m’è ovvio con saghe che vengono spremute all’inverosimile, ma mai disonesti.
Adam Robitel fa però sicuramente meglio di Leigh Whannell, qui presente come attore, dietro la macchina da presa, capitalizza l’apporto produttivo di Oren Peli (Paranormal Activity) e soprattutto del valido James Wan (regista del primo Saw – L’enigmista, di The Conjuring, ora impegnato in Aquaman) e dimostra spalle abbastanza larghe quando c’è da lavorare su delle atmosfere già piuttosto codificate dalla filiera Blum. Anche Lin Shaye, anziana attrice con alle spalle una lunga carriera, sembra reggere il colpo quando il suo personaggio acquista una centralità emotiva e psicologica che forse è il più valido motivo di interesse di questo nuovo (ultimo?) capitolo.
Mi piace: lo sviluppo del personaggio di Elise Rainier, affidato a Lin Shaye
Non mi piace: qualche eccessiva torsione cronologica, che fatica a non apparire assurda
Consigliato a: i fan della saga e di tutta la produzione della Blumhouse
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