“Interstellar”, l’ultimo spettacolare film firmato da quel grande prestigiatore cinematografico che è Christopher Nolan, è un’apprezzabile opera che, tra pregi e difetti, riesce almeno in uno dei suoi obiettivi: meravigliare e regalare stupore allo spettatore. Le potenti immagini e il forte spettacolo visivo riescono a oscurare almeno in parte i suoi limiti e trasportare lo spettatore in una vera e propria esperienza cinematografica (non a caso filmata con pellicola 70 mm e per schermi IMAX). Ma se il linguaggio visivo è stilisticamente e tecnicamente impeccabile (vedi su tutto la bella sequenza del wormhole), non altrettanto si può dire per alcuni aspetti e scelte della parte narrativa.
Preso spunto da un trattato di Kip Thorne, un fisico della Caltech impegnato nello studio della fisica gravitazionale, la sceneggiatura (firmata dal regista col fratello Jonathan) si poggia con rigore e fedeltà su una base scientifica che, tranne per alcune eccezioni, è valida e solida, e dona un tocco realistico e quasi documentaristico all’intera vicenda (l’attraccaggio dei moduli spaziali, la vita all’interno della navicella, la meraviglia del cosmo e del wormhole, il problema del diverso scorrere del tempo legato ai viaggi interstellari e al paradosso dei gemelli).
Eppure dopo una magnifica prima parte descrittiva di un futuro terrestre dalle cupe, inquietanti atmosfere, molto più credibile e interessante della seconda, tutto sembra svilupparsi su percorsi più riduttivi e confusi. Il film si perde in eccessivi intellettualismi e viene schiacciato dal peso delle sue ambizioni. Non giovano l’eccesso di spiegazioni scientifiche, l’eccesso di ambizioni filosofiche e le troppe storie all’interno di una trama che, seguendo due piste narrative (la sopravvivenza dell’umanità su altri mondi e il rapporto padre-figlia separati improvvisamente, ma legati da un grande amore) è efficace quando queste sono divise ma debole quando sono unite.
Questa forzata convivenza finale tra scienza e sentimento, dilemmi morali e ossessioni intimistiche, rendono diseguale il film. Così come tutto l’impianto immaginifico, in fondo privo di una vera visionarietà.
Ciò malgrado il messaggio finale passa in modo intenso: l’Amore è più vitale di qualsiasi forza misteriosa e trascende lo Spazio e il Tempo. Merito anche di un accurato ritratto dei personaggi e di un cast straordinario (il Cooper di Matthew McConaughey e sua figlia Murph sono convincenti, e non a caso ci sono molti primi piani e toccanti scene), ma anche di una regia che articola i piani narrativi, rende discontinui i ritmi, non teme l’eccessiva durata, si affida a un maestoso lavoro scenografico/fotografico e all’ottimo utilizzo di montaggio, musica e CGI integrati nel plot e mai gratuiti.
La fantascienza autoriale degli anni ’60/’70, i film e la poetica di Spielberg, il “Contact” di Zemeckis, lo spazio come ultima frontiera e il viaggio come esperienza metafisica dentro di noi, gli omaggi a Kubrick (ma “2001 Odissea nello spazio” è ancora ineguagliabile) e a Tarkovskij, il destino autodistruttivo dell’uomo e la fiducia nelle sue capacità, il legame familiare e la voglia di sopravvivenza, il desiderio di conoscere o scoprire il nuovo (“esploratori”) e quello di conservazione (“guardiani”), tensione e avventura, sacrificio e superamento dei propri limiti, e altro ancora è raccontato e rappresentato con sincera, lodevole passione da Nolan; e questa sua ultima fatica, malgrado tutto, sa come coinvolgerci e affascinarci.