Della struttura (fanta)scientifica del film non ho compreso una beneamata cippa, e non perché Thorne abbia ormai 93 anni e/o per l’eventuali inesorabili aporìe quando s’affrontano i loop cronologici, ma perché i Nolan ne hanno inventato una tipologia che m’interessa zero, quello del racconto non lineare fine a se stesso, rompicapo (“mind-bender movie”) ludico però d’un genere di giochi che diverte pressoché solo una cospicua fetta di questa generazione, prevalentemente maschile, cresciuta a console e web, ps-addicted, internauti, geek, nerd, “update or perish”, coloro i quali durante la più grave crisi economica dell’Occidente dal 1929 hanno permesso che il comparto merceologico high-tech fosse l’unico esente da perdite, flessioni e cedimenti. La non linearità narrativa nolaniana non è in funzione della storia, non ricalca sul piano espressivo/formale/stilistico nessuna specifica complessità delle vicende descritte. Al contrario, serve ad aggiungere un trastullo, da troppi percepito com’allettante e piacevole, per compensare e rimpolpare contenuti altrimenti semplicistici, li complica non poiché essi non siano algoritmicamente comprimibili, bensì proprio poiché lo sarebbero. Perciò scivolare da una diegesi tipo “Rapina a mano armata” di Kubrick (1956) a un balocco tipo il cubo di Rubik non è il classico esempio della montagna che partorisce il topolino, quanto d’una montagna partorita per bilanciare e vicariare la miserabile povertà da spielberghiano script familiocentrico. In “Inception” il sogno è forse del protagonista o di sua moglie o dei loro pargoletti, comunque sia ruota (“totemicamente”) attorno al (melo)dramma matrimoniale. Stavolta è il turno di padri, madri, genitori, figli, figlie, nonni, nonne, nipoti, legami fra consanguinei e vincoli fra chi un matrimonio ancora non ce l’ha (l’Hathaway prima con Damon e poi forse col vedovo McConaughey): i cambiamenti apportati da Christopher alla sceneggiatura scritta dal fratello Jonathan per Spielberg vanno tutti in tale direzione. Già in “Memento” era evidente quanto la neuropsicopatologia traumatica fosse intrigante di per sé, si pensi al caso parallelo di Sammy Jankis narrato in b/n, ma il film sarebbe diventato un cortometraggio senza l’astruso escamotage applicato a Leonard Shelby. “Interstellar” ricorda “La cura” di Battiato & Sgalambro (1996): struggente lirismo ed enfasi retorica, sentimento salvifico contr’ostacoli e insidie gravitazional-spaziotemporali frammisto a sovrarrangiamenti pomposi e lambiccati, epicità e tonfi compositivi, limpida ispirazione e astuzie del mestiere.
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