A ventisette anni di distanza dagli eventi del primo film (era il 1989, adesso siamo nel 2016), Mike (Isaiah Mustafa) richiama uno per uno i membri del Club dei Perdenti a Derry, dove tutto ebbe inizio. A guidarlo c’è la convinzione che Pennywise (Bill Skarsgård) sia tornato in azione: i ragazzini del Loser Club lo hanno infatti sconfitto ma non eliminato e tutti loro, ormai adulti, dovranno riunirsi per fronteggiare una nuova, inquietante minaccia.
In It: Capitolo Due il senso di malinconia e di orrore si fondono agilmente: Bill (James McAvoy), Richie (Bill Hader), Eddie (James Ranson), Ben (Jay Ryan) e Beverly (Jessica Chastain) rispondono alle sirene di un tempo preparandosi a una resa dei conti con il malefico clown, rapitore e uccisore di bambini, e ricollegandosi immediatamente alle atmosfere della loro infanzia. Tutti quanti hanno abbandonato la cittadina per lasciarsi alle spalle gli strascichi che li avevano segnati, ma sarà impossibile sottrarsi a un ritorno nel Maine in virtù di una promessa fatta molti anni prima.
Il regista Andy Muschietti, dal canto suo, ritrova invece lo sceneggiatore Gary Dauberman (IT, Annabelle: Creation) e intavola un sequel dalla durata monstre (due ore e quarantacinque minuti) che suona a tutti gli effetti come il controcampo fosco del precedente fenomeno da 700 milioni di dollari al box office mondiale. Un blockbuster horror che riprende il tracciato dei traumi e dei tremori narrati nelle pagine di Stephen King per proporre ruotare intorno al tema della fragilità della memoria, del passato sotto forma di riverbero involontario, di riproposizione in chiave amplificata di ciò che è stato.
Da queste premesse emerge un seguito gonfiato nelle ambizioni e nella confezione, oscuro e torbido: i riflessi che popolano le immagini si fanno doppioni sconcertanti di paure già vissute, alle quali dare un nuovo nome con la consapevolezza dell’età matura, in oscillazione perenne tra l’ieri e l’oggi. Non sono solo i Perdenti a farsi scudo di questo schema psicologico-affettivo, ma anche tante sequenze di IT: Capitolo 2, pensato in maniera singolare come un catalogo a blocchi di scene madri.
Una sorta di fratello maggiore, e di magniloquente variazione sul tema, del predecessore da record la sceneggiatura allude a più riprese alle storie che hanno bisogno di una fine (in tal senso di sono due camei d’autore tutti da scoprire), alla necessità intima di un epilogo che spazzi via per sempre il legame terribile e ancestrale con le proprie radici. Ma la verità, probabilmente, è che IT: Capitolo Due da quel cordone ombelicale non sembra volersi staccare, prolungando all’infinito il piacere macabro delle sue azioni e reazioni, scandite da jumpscare puntualmente riavviati da un’intuizione sanguinolenta.
Ne viene fuori un film grondante e imponente, forse talvolta al limite della ridondanza, violento quanto basta (ma comunque non poco) e di grande respiro epico, pur nella cupezza estrema di fondo e nell’inanellarsi di ferite vicine e lontane che non risparmiano davvero nessuno. Il coraggio di Muschietti lo porta infatti a spingere senza soluzione di continuità sulle potenzialità delle proprie idee visive, a cominciare dal vibrante prologo con l’Adrian Mellon di Xavier Dolan e un oceano in volo di palloncini fluttuanti.
Per arrivare a una fase conclusiva che giganteggia con le proporzioni e i formati, restituendo appieno la cifra stilistica di un horror che vuole essere bigger than life tanto nel dispendio grafico (c’è anche una sequenza claustrofobica con ettolitri di sangue da far invidia a Shining) quanto nel ricorso a una nostalgia amara e tagliente che si propaga a perdita d’occhio, tanto nelle battute a ripetizione del Richie di Hader, dispensatore di grezze punch-line tutte da ridere, quanto nella tormentata Beverly, alle prese con un’unione in frantumi e con altri barlumi di romanticismo.
Il risultato finale, che si divide equamente tra flashback vellutati e viaggi al termine del notte, scisso tra i battiti del cuore dei Perdenti e lo studio della vera natura di Pennywise, lascia inizialmente di stucco e forse anche di sasso per l’azzardo del disegno d’insieme: il film è costruito d’altro canto per continui e dilatati set-up, che s’infiammano ricoprendo di sentimento e di atrocità ogni personaggio, ma minuto dopo minuto l’ingranaggio prende corpo, chiarisce sempre di più la sua ossatura, rapisce e conquista. Creando, tra le altre cose, un precedente non da poco nell’orizzonte dell’horror ad alto budget odierno.
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