(Un grazie a Orietta Anibaldi) Il volt’in primo piano d’una persona devastata dal dolore, piange più con lo sguardo pers’e disperato che con gl’occhi, le lacrime trattenute le gonfian’il naso, la sofferenza le contrae le labbra e l’aggrinzisce la cute del collo, un piano sequenza la riprende con la steadicam, la fotografia l’ammanta con la luce del tramonto, la location è isolata e decontestualizzata, la soundtrack è dissonante e con scale armoniche in prevalenza discendenti, dissolvenz’in nero. Incipit da “L’urlo” munchiano secondo la sensibilità aggiornata di Larraín, e il film sarebbe già potuto terminare. Invece andavano colmati altri 100 minuti e la figura della signora Kennedy prende form’almeno in parte. Uno shock (post)traumatico impossibilitato a diventar’elaborazione del lutto per la tempistica del protocollo imposto dalla Ragion di Stato. Un animo allo sbando bisognoso di sviscerar’il proprio trauma con 3 interlocutori maschili: il giornalista di “Life”, il cognato Bobby, il prete confessore. “Ho dett’a tutti che non riesco a ricordare. Non è così. Io mi ricordo. Io mi ricordo tutto”. Ogni dettaglio dell’omicidio: il suono del proiettile quando colpisce il marito alla testa le rintron’ancora dentro, lei continu’a ribadirlo, poi il regista ce ne mostra prima i segni (l’abito e il corpo nudo sotto la doccia grondanti sangue), infine la scena senz’elisioni eppure con un senso sopraffino della misura, col giusto distacco estraneo all’indifferenza quant’al pulp/splatter/gore. S’entra nella mente di “Jackie”, e si rabbrividisce all’idea di come la materia sarebbe stata resa cervellotica da un Kaufman, formalistica da un Aronofsky (qui produttore), costellata d’eccessi da Trier. Larraín firm’un biopic strutturato sull’emozioni, avvincente, rigoroso, memorabile, non un capolavoro poiché il film non è esente da errori, difetti, limiti che lo rendono “bipolare” (Alò) per le traversie incontrate dal progetto il quale, in definitiva, serve due padroni, due modi d’intender’il cinema, (almeno) due sceneggiature non amalgamabili fra loro, e il compromesso non è riuscito manc’al talentuos’autore cileno. “Jackie” gongola d’aneddoti fittizi a scapito della storia personal’e della Storia: Munch per il suo dipinto aveva scelto un anonimo (un autoritratto?), mentr’alla sua prima produzione statunitense Larraín deve garantir’il recupero degl’investimenti sfruttand’o parassitando la celebrità della vedova Kennedy (e dell’interprete già premiata coll’Oscar): non sappiamo nulla di certo su dove Jacqueline sia stata condotta dal presunto torment’interiore, e comunque non di sicuro ad alcunché di nuovo rispetto a quel che l’umanità conosce dalla notte dei tempi senz’appoggiarsi a sedicenti esperienze privilegiate vissute alla Casa Bianca. Lei si responsabilizza per non essere stat’in grado di protegger’il marito: che dir’allora del suo paio di figli già morti, Arabella e Patrick? Nel dialogo con Hurt cerca non risposte metafisiche (immaginatev’il pippone newage o malickiano se nel 2010 foss’andat’in porto lo script iniziale con Aronofsky e la Weisz prima del loro divorzio: un sequel di “The Fountain”), ma uno sfogo per il suo desiderio di morte, di “cupio dissolvi”, di tentazione suicida, tuttavia avrei preferito meno parol’e più immagini. Idem per il rimpianto di non si sa bene cosa: Camelot, un sogno spezzato sul nascere, la parte politica del dialogo col cognato è anch’essa verbale e per null’iconica. Bobby le indica di far silenzio più d’una volta, ma non è lei, in pien’incubo da sveglia, a dover essere zittita, bensì proprio il cineast’a ispirazione vincolata. Inoltr’il film è talment’imperniato sul personaggio principale che non risulta chiaro ciò che Jacqueline avrebbe perso, il lutto di cosa dovrebb’elaborare: marito, famiglia, ruolo di First Lady? Aspetti dipendenti dalla relazione con quel Presidente che per scelta registica vien’estromesso dal racconto. Ps: ho trovat’inopportune due scelte di casting: a fianco della Portman, Crudup, Sarsgaard e Hurt, non ho colto l’utilità della Gerwig, ingombrante pesce fuor d’acqua, corpulent’e massiccia da sovrastare la protagonista quant’il Lyndon Johnson impersonato da Lynch, rassicurante come quand’era il sospettato serial killer del finchiano “Zodiac” (2007).
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