Jersey Boys: la recensione di Silvia Urban
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Jersey Boys: la recensione di Silvia Urban

Jersey Boys: la recensione di Silvia Urban

«C’erano tre modi per uscire dal quartiere: entrare nell’esercito e magari finire ucciso. Diventare mafioso e magari finire ammazzato. O diventare famoso. Per noi, erano due su tre». A parlare è Tommy DeVito, primo narratore di questa storia che inizia nel 1951 per le strade di Belleville, nel New Jersey. È in quella colonia italoamericana che Tommy e l’amico Frankie Valli (all’anagrafe Francis Castelluccio) crescono sotto l’ala del boss Gyp DeCarlo, coltivando nel frattempo il sogno della musica. Il più ambizioso – e testa calda – è proprio DeVito. E nonostante qualche soggiorno dietro le sbarre (la fedina penale qui vale come un curriculum) riesce anche a salire sul palcoscenico di diversi locali della zona, prima come leader dei Variety Trio e poi come chitarrista dei Four Lovers, primo embrione dei The Four Seasons. La formazione comprende il bassista Nick Massi, Bob Gaudio alle tastiere (è anche l’autore della maggior parte dei testi) e il frontman Frankie Valli, “il piccolo uomo dal grande falsetto” (una vocalità a cui non siamo più abituati; la si apprezza col passare dei minuti). Il talento c’è e con le intuizioni del produttore Bob Crewe arriva anche il successo, accompagnato inevitabilmente dalla difficoltà di saperlo gestire. E in questo il quartetto dimostra di avere meno talento: le dinamiche e le relazioni interne si incrinano e un enorme debito contratto da DeVito porta al punto di rottura definitivo.

Clint Eastwood adatta per il grande schermo la vera storia della band, “copia-incollando” l’omonimo musical di Broadway. Dallo spettacolo teatrale “ruba” gli autori della sceneggiatura – Rick Elice e Marshall Brickman –, tre degli interpreti principali – John Lloyd Young (Valli), Erich Bergen (Gaudio) e Michael Lomenda (Massi) ­– e l’uso della quarta parete, con gli attori che guardano dritto in macchina e si rivolgono al pubblico, portando avanti il racconto ognuno dalla prospettiva del proprio personaggio. Ma si serve delle potenzialità del cinema per valorizzare gli spazi e gli ambienti – curando nel dettaglio la ricostruzione storica – e infilarsi nel privato dei protagonisti. Un’operazione à la Dreamgirls (la parabola dei The Four Seasons ricorda quella delle Supremes; anche in questo caso la musica diventa strumento di riscatto sociale) con accenni a Quei bravi ragazzi, sebbene la quota mafiosa della vicenda si risolva senza alcuno spargimento di sangue, filtrando attraverso le parole, i gesti e l’autorità di Gyp DeCarlo (Christopher Walken) e Norm Waxman (Donnie Kehr), l’usuraio che presenta a DeVito un conto da 150.000 dollari.

A differenza del film di Bill Condon, Eastwood non cede al musical, usando le canzoni – rigorosamente cantate dal vivo – per scandire la carriera della band nei suoi diversi momenti di svolta, ma scorporandole dalla sceneggiatura. È nel racconto del momento creativo – quando si “acquista” l’ultimo componente del gruppo nel backstage di un bowling o si incide la prima hit, “Sherry”, dalla cornetta di un telefono – che Jersey Boys acquista la sua forza. Più annacquato, invece, il tentativo di approfondire il sostrato socio-culturale. Nonostante i 134’ minuti di durata, non c’è abbastanza tempo per delineare l’evoluzione del rapporto tra Frankie e le sue donne (moglie e figlia), bisogna accontentarsi delle poche sequenze in cui entra in scena la nuova fidanzata Lorraine per capire il ruolo che ha avuto nella rottura dell’amicizia tra Valli e DeVito, e lo spettatore deve cogliere tra le righe il codice d’onore che regola le loro vite.

Il resto lo fanno una colonna sonora intramontabile e quattro sconosciuti ormai padroni di questi personaggi (in virtù delle precedenti interpretazioni a teatro; solo Vincent Piazza non aveva mai incarnato DeVito), che si esprimono al meglio proprio nelle performance dal vivo. Ed è qui che la mano di Eastwood (che si concede anche un breve cameo) si vede anche con maggior chiarezza. Una regia appassionata e divertita, che nella sequenza finale adotta addirittura una prospettiva e una profondità teatrale.

Leggi la trama e guarda il trailer del film

Mi piace
Il racconto del momento creativo, le performance dal vivo e quattro bravi sconosciuti (al cinema) padroni dei personaggi.

Non mi piace
Il film riesce solo a tratteggiare la dimensione socio-culturale e il privato dei protagonisti.

Consigliato a chi
Vuole assistere allo spettacolo offerto dagli alter ego maschili delle Supremes e ascoltarsi un’ottima colonna sonora anni ’50.

Voto
3/5

 

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