Joy: la recensione di Leonardo23
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Joy: la recensione di Leonardo23

Joy: la recensione di Leonardo23

Pare, David O Russel, regista superbamente istintivo, sagace tanto nell’avvitare sull’agile bacino creativo storie d’audacia americana, la cui grinta è il ritmo e i cui vezzi son sgommate superbe, quanto ingenuo nello sciogliere in dolciastre sfumature proprie del patinato certe flessioni che cavalcano il brivido dell’impagabile, proprio impagabile, cinema-gusto. A riprova di questa energia che sgorga dall’ordinario, strada, vita, persone, la prima parte della sua ultima fatica in monosillabo, Joy, gode della virtù d’esser immergevole, a cui calza mise femminile e favolistico racconto generazionale. Di donne, sulle donne, ma pensato da uomo, e in effetti d’effetto nei primi quaranta, è però negli altri ottantaquattro fatalmente pasticciato. È il dramma dell’accondiscendenza, che sfalda, sfianca, smaglia la lievitante vita-soap di Joy (qualcuno ha detto Mangano?), sogni in lista d’attesa e i debiti nel cassetto, bionda da capogiro con padre ed ex (DeNiro come siamo nella parte) nel seminterrato, due figli, madre tele-dipendente e nonna narratrice. Stupirà tutti, anche sé stessa. Sceneggiatura sempre in ritardo e regia troppo in anticipo non aiutano a superar gli affanni che s’assommano coi minuti allungati con l’annacquo, nulla può fare la raggiante Lawrence, spigliata diva dell’empireo hollywoodiano, e questa strimpellata salta tutti (o quasi) gli accordi felici, dal presente-non citato sogno americano alla costante del focolare di famiglia che gridacchia “siamo bislacchi ma lo sappiamo”. È così purtroppo, il dramma non dramma self-made woman ha data di scadenza immediata.

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