Il film si apre su una soap opera in bianco e nero, di quelle con i personaggi dal make up esagerato, dalle teste supercotonate, ma soprattutto fatta di tradimenti, equivoci e di continue fughe e ritorni (come Beautiful o Falcon Crest), che il montaggio alterna al prologo della storia dell’infanzia e della famiglia di Joy raccontata dalla voce della nonna, sfumando così il confine tra illusione e realtà e immergendoci da subito in una favola contemporanea.
Joy è una Cenerentola fine ’80/inizi ’90 con un principe sgangherato che sogna di diventare un novello Tom Jones e due figli, un padre che non l’aiuta, una madre sempre a letto e attaccata alla televisione tutto il giorno, una sorellastra che la denigra ogni volta che le è possibile e una nonna, che è l’unica che crede in lei. Eppure Joy tiene insieme tutto e tutti, pulisce per terra, fa riparazioni da idraulico, accoglie il padre piantato dalla compagna e lo mette a vivere nel seminterrato dove già abita l’ex marito, sopporta l’inerzia da malata immaginaria della madre e non si lamenta quanto potrebbe.
La ragazza da bambina era in grado di costruire cose meravigliose e aveva anche progettato un ingegnoso collare per cani che però non era stato brevettato; al liceo e all’università era la prima della classe, ma aveva rinunciato a tutto dopo il divorzio dei suoi riducendosi a una vita da massaia sempre in bolletta e con lo spazzolone in mano. Finché una sera leggendo la favola del letargo della cicala alla figlia, non si risveglia dal suo stato di incoscienza e capisce di dover riprendere in mano il filo della sua vita. “Come ho fatto a finire così? Che fine hanno fatto i nostri sogni?” confessa all’amica di sempre.
Joy mette a punto un’invenzione rivoluzionaria (molti uomini potrebbero storcere il naso per quest’affermazione), il mocio (miracle mop), che permette alle donne di non rompersi la schiena e di non sporcarsi o tagliarsi le mani, perché si strizza da solo. E qui inizia la parabola della giovane donna, che come sempre nei film di David O’ Russell è un American Dream alla rovescia, dove gli ostacoli che si parano di fronte mettono in luce gli aspetti disfunzionali e disturbanti della famiglia, altro tema ricorrente del suo cinema come in The Fighter o ne Il lato positivo. E, infatti, qui c’è ancora De Niro che fa la parte di un padre che mette i bastoni tra le ruote alla figlia e la sottovaluta e c’è una matrigna finanziatrice che la mette alla prova con test psicologici bizzarri (una riesumata Isabella Rossellini perfetta nel ruolo) e tutto diventa sempre più grottesco man mano che avanza, altro elemento ricorrente dello stile del regista.
Tutto è confuso nella mente di Joy, che alterna tra sogni e incubi momenti di grande entusiasmo quando riesce a entrare nelle case delle casalinghe d’America attraverso un canale commerciale gestito da Bradley Cooper a fasi di grandissimo sconforto quando rischia di perdere tutto a causa di una truffa, e si rispecchia in una narrazione altrettanto confusa e in un montaggio scoordinato, con tagli bruschi che fanno saltare per aria i raccordi narrativi. Ma pare che O’Russell se ne infischi e ci imponga di accettare questa struttura sconnessa in nome della bellezza dei suoi personaggi che amano, soffrono, piangono, cadono, si rialzano e poi cadono ancora, proprio come nella più classica delle telenovele.
Quella di O’Russell è ormai una compagnia di giro: Bradley Cooper, Robert De Niro, ma soprattutto lei, la musa Jennifer Lawrence, che si carica sulle spalle il peso di questo film imperfetto, quasi televisivo e nello stesso tempo teatrale nel modo in cui la macchina da presa segue i corpi, accomunandoli tutti insieme nella stessa inquadratura. La giovane attrice, che ha meritato giustamente il Golden Globe per questo ruolo (ma probabilmente cederà l’Oscar alla Brie Larson di Room), ha un magnetismo che poche altre coetanee (e non) possiedono e calamita lo sguardo dello spettatore su di sè, riuscendo a far dimenticare l’incertezza dei dialoghi e delle situazioni poco studiate, quasi come se anche il regista fosse imbambolato dalla sua presenza (il duello western con il truffatore con il cappello e la conseguente uscita di scena di Joy è una vera e propria dichiarazione d’amore) . Ma l’amore del regista per i suoi personaggi comprende anche gli altri, come quando regala a Cooper quel momento da maestro d’orchestra delle riprese televisive, un sentimento che però fagocita la cura per tutto il resto.
Anche il riferimento biografico (Joy Mangano è oggi una bionda sessantenne a capo di un impero di prodotti per la casa), che può inizialmente lasciare perplessi, non che è il pretesto per mettere in scena uno scomposto melodramma americano, che sicuramente piacerà più alle donne che agli uomini, perché rispecchia le loro vite e il loro mondo emotivo altalenante, offrendo un modello femminile che non ha bisogno di un principe per stare in piedi. Quello di O. Russell è un po’ un cinema prendere o lasciare, ma che film dopo film rispecchia una poetica sempre più chiara e personale, che mostra molto più di quel che appare in superficie.
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Mi piace: il magnetismo della Lawrence a servizio di un melò contemporaneo.
Non mi piace: il montaggio tagliato un po’ con l’accetta.
Consigliato a chi: è in cerca di una storia edificante, ma che non è assolutamente la solita American Dream Story.
VOTO: 3/5
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