“Julieta” (id., 2016) è il ventesimo lungometraggio del regista spagnolo Pedro Almodòvar.
Film che rimane impresso, non si riesce a staccarsene e i suoi personaggi (dentro e fuori lo schermo) sono gocce di passione a tutto tondo. E’ una passione che ci segue oltre la fine, una via di lampioni su strade a pastello, voragini di sentimenti, congiungimenti finiti e diari in trascrizione diretta. Una voce che racconta e i cori femminili al meglio che assopiscono, innalzano, rigurgitano e ammaliano l’ardore artistico del regista Almodòvar. E sì, nei titoli di testa l’autore si firma in cognome (non è il solito in tutte le sue pellicole come ‘Volver’, e ‘Tutto su mia madre’ quando invece aggiunge il nome ‘Parla con lei’ e ‘Tacchi a spillo’) con un incipit che è costante nel film: non ci sono scene da ricordare come archivio ‘barocco’ del regista ma è tutto da ‘metabolizzare’ e ‘assorbire’ con sprazzi di vedute da cui apprezziamo l’arte di ripresa che è timbro e suo stile come l’accostarsi in modi e ardimenti ad altre voci. E riconosciamo l’essenzialità, la forza visiva e gli stacchi di modi hitchcockiani come il fervore narrativo fuori schermo polanskiano.
Ogni inquadratura pare desunta da ciò che in realtà non si vede mai e il racconto appare manifesto in molte cose ma si ritrae, si sottrae, si nasconde in ciò che ognuno pare non dire mai: uno strano connubio tra visto e sentito, fuori onda e volti scomparsi. E’ l’essenza di ogni lontano che vorresti avvicinare e non si vede mai. Il lontano nei personaggi e le loro interiorità, il culmine dei fatti tragici, la morte come alchimia perfetta nel cambiare ogni vita (la propria mentre ascolti Julieta che racconta, si racconta e scrive ad una figlia che ama non raccontarsi più), distruggerla, ammaestrarla, rinvigorirla e, forse, cercarla. Un ultimo tragitto oltre Madrid (il Portogallo non si è visto mentre il lago di Como)
Solo assenze, solo cognome, sole vite da incontrare, solo ricordi vaghi, solo corpi da toccare in un’interiorità indisciplinata. Madre e figlia, figlia e un’altra madre. Un uomo sul treno, un incontro finito in tragedia, un ritorno a casa, una madre anziana e una figlia lontana da ormai tredici anni; un’amica e un artista, un amore che non c’è, una storia che si vuole ricominci con un volto pieno di rughe d’animo. E’ la vita di Almodòvar è tragedia senza sconti con un ritrovo lontano che non vediamo che in noi stessi: oltre le strade che percorre Julieta (Emma Suarez), in un panorama di boschi alla maniera di un ‘confine’ kubrickiano.
Julieta è l’Almodovar che è già un ‘classico’ del suo cinema. Un’evoluzione dei suoi personaggi, della messa in scena, della fotografia, dei particolari e di tutto ciò che forse non vuole più scoprire(si).
Uomini e loro rappresentazioni, scolpiti, seduti, peno-samente in mostra: la loro vita è inseguire donne che alimentano un po’ di vita oltre la sera; il melodramma è servito senza artifizi inutili e con gusto acerbo da commuovere dentro il nostro sentire.
Lorenzo Gentile (Dario Grandinetti), l’amico che diventa un aiuto, un aiuto per la fuga, un ritrovo per soccorso, un uomo che arriva quando lei non vuole più partire ma tornare indietro, conoscere madre e figlia.
Itinerari e scontri, il mare e la pesca, la bufera in una vita che ci lascia solo silenzi: Xoan (Daniel Grao) lima il corpo della sua donna con forza e poche parole in una casa con la vista sulle onde (ora piatte, ora rumorose) da racconto di un romanzo d’appendice.
E gli incastri riescono a sconvolgere ogni volto e con loro anche tutto ciò che è vicino: la casa è uno scontro continuo, il rigetto dei ricordi, una foto strappata, gli scaffali da scartare e i vestiti da buttare per terra. Madrid diventa ‘archè’ di ogni movimento e tragitto di Julieta: distanza e vicinanza, amore o odio, come un incontro fortuito con gli amici che aspettano all’angolo di una strada (e il trucco appare e scompare).
Tremano i polsi quando l’uomo va a pesca senza ragione come senza ragione è il cuore di Julieta che sente il tradimento per una donna (Rossy De Palma, la Marian amica dell’arte ) per scoprire il corpo irriconoscibile di un rapporto atrocemente finito. L’acqua e la barca, le onde che smantellano ogni desiderio conquistato (come un uomo suicidato sotto i binari del treno).
Antìa e la fuga, il senso di colpa, una vita fuori dall’ombelico, una fede e i suoi tre figli. Tutto questo e altro non c’è traccia visiva nel film ma è dentro il film e la suo viaggio femminile.
Sceneggiatura (dai racconti della scrittrice, premio Nobel, canadese Alice Munro) fotografia e regia riescono a integrarsi in modo quasi armonico nel racconto con un commento ‘musicale’ del fidato Alberto Iglesias che non lascia attimi alla fantasia fin dalla prima inquadratura. Musica che in certi frangenti mette i brividi tale è il legame con quello che il regista esprime.
Voto: 9/10.