Killshot: la recensione di Eddie Morra
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Killshot: la recensione di Eddie Morra

Killshot: la recensione di Eddie Morra

Armand, il Falco nero… Certi attori han intagliato, nel “sangue” degli zigomi, una virulenza ermetica che rende, il sottil taglio dei loro occhi, lanceolata passione, seminale dei loro nervi, dell’ossatura prodigiosa della loro naturale recitazione.
Mickey Rourke, un totem a se stesso, di gloria che s’arcuò in uno storpio “ingobbirsi” per facili scherni di chi aspettava l’attimo propizio per defraudarlo anche di quest’immane talento, un carisma insinuante che ti scruta dentro, lecca quasi le tue ferite addolcendole d’una guaina come il suo Sguardo “slabbrato”, teso nelle profondità in cui s’abissò, angoscia che fu “vile” e fuggì, nelle tortuose voracità del sistema, e risorse sorseggiando, un po’ schiva ai clamori, ancora a passi delicati ma di poderosa energia, quasi baritonali come la sua ruvida voce e un corpo scolpito nel “sudore” di tante palestre, soprattutto quella della vita, in cui n’è “deperito” e si “deturpò” e poi, moderatamente lucente, fu inaspettata “rinascita” o quasi “biascichevole” mutazione a non vedersi. Ad accecarci forse, ché stupiti, ne plaudiremo ancora il coraggio, il pudore d’una maschera irripetibile, angelicamente demoniaca.

Le cantilene, di melanconia avvolta nella polvere, in un’oscurità che danzava col Diavolo, in un tremolio acceso per tremar ancor di più.

Come questo film, increspato di venature noir, thriller “lentissimo” dai pochi picchi, abbagliato dalla Bellezza matura d’una Diane Lane magrissima e slanciata, di candida biancheria intima ad abbacinar qualche giovane “volpe”, il solito bolso Thomas Jane, un Gordon-Levitt agitatissimo, come la sua merda “shakerata”.

E, quindi, Lui: Mickey, leviatano dal fisico mastodontico, che fissa il vuoto in vitree riflessioni amletiche, pensa che lo capiscano, ma forse è solo la solita puttanella da quattro soldi.

John Madden, che confezionava film sentimentali ruffianoni, qui cambia genere e registro, forse non gli va benissimo, perché la produzione “uccide” la sua pellicola, la (se)vizia alla radice, la “sospende”, la recide, la tiene in naftalina e poi la sminuzza.
Ne viene fuori un film un po’ soporifero, che si gusta quasi come il whisky nelle nostre anime-miniature, ma che va liscissimo, tendente “a calmarci” dentro e turbarci un po’.

Come una storia di Elmore Leonard che fa gran “casino” per nulla.
Perché, la vita, immutabile, è lo spettro delle nostre terrificanti umanità, e scorre sempre, frenetica d’inezie, delle solite urla e di spari nella notte, vicino alla foresta.

Grande film? No.
Ma a me piacque, sì, e lo dico mentre passeggio con un ubriaco, porgendogli solo una caraffa d’acqua.

(Stefano Falotico)

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