Dopo aver ereditato da Steven Soderbergh il progetto Operazione U.N.C.L.E. e aver portato sul grande schermo una spy story decisamente nelle sue corde, il regista britannico Guy Ritchie prende in mano la leggenda di Re Artù e torna a un universo narrativo iconico e celeberrimo, riconducibile a una fetta larghissima di immaginario e di cultura popolare proprio come il suo precedente blockbuster Sherlock Holmes, capace di aggiornare un mito letterario in chiave action e di farne risaltare le riconoscibili coordinate di base in versione hardpop.
In King Arthur l’ex marito di Madonna si rigioca i medesimi assi nella manica e gli stessi ingredienti del dittico sherlockiano arrivato al successo planetario e affronta il ciclo arturiano e le avventure del castello di Camelot da una prospettiva trucida e tamarra, con una messa in scena martellante e una confezione da blockbuster epico e fantasy. Il marchio di fabbrica di Ritchie, che si era imposto negli anni ’90 con un cinema pulp e postmoderno che premeva a mille sul pedale dell’acceleratore, del grottesco e dell’eccesso, è assolutamente riconoscibile nel tocco e nel tratto, ancora una volta, manco a dirlo, di grana grossissima.
Prodotto e anche sceneggiato dal fedele compagno di merende Lionel Wigram, che aveva fiancheggiato Ritchie pure in Sherlock Holmes, King Arthur è un divertissement d’azione che si concede tutto e il contrario di tutto, tra sequenze di combattimento a dir poco pachidermiche con armi affilate che sembrano spade laser e strizzate d’occhio piuttosto vistose all’iconografia de Il signore degli anelli, un modello ancora oggi insuperato per il genere. Dal canto suo il 3D, che punta tutto su delle coreografie impazzite e dal sapore videoludico, è uno strumento in più al servizio della spettacolarità generale, del montaggio sincopato, di una puntuale e comicissima sospensione dell’incredulità.
Ovviamente la mano di Ritchie non si ferma alla confezione chiassosa e non manca di incidere a un livello più sotterraneo e meno superficiale, perfino culturale: il suo Artù ha ben poco dell’eroe originale ed è una mezza tacca da sporca dozzina qualsiasi (il volto rozzo di Hunnam, in tal senso, è perfettamente calzante), un balordo trucido e spaccone “sopravvissuto nel ghetto, cresciuto nel letame e figlio illegittimo di una prostituta”, che si tiene volutamente lontano da ogni suggestione nei riguardi del potere e si cala piuttosto in una realtà marginale e periferica lontanissima da Camelot, che infatti non si vede quasi mai (“Da oggi cominci a esistere, non sei più Mito”, dice non a caso ad Artù la Maga interpretata dalla cupa e smunta Astrid Bergès-Frisbey).
Un Medioevo brutto, sporco e cattivo che nelle mani di Ritchie assume un taglio esclusivamente canagliesco e spavaldo: anche Jude Law, nei panni del perfido zio Vortigern, è un villain dal sapore ovviamente fumettistico e i castelli del mito di Excalibur lasciano il posto a una versione più antica della capitale inglese, una vera e propria Londra romana (Londinium, com’era chiamata all’epoca). Non potrebbe esserci fondale più adatto per Ritchie, nato ad Hatfield, nella periferia londinese nord, ed è perfino stupefacente che il suo Artù non si esprima in strettissimo dialetto cockney. All’inizio l’ipotesi era stata tra l’altro messa in campo, ma alla fine si è preferito evitare quest’ulteriore deriva, fermo restando che Hunnam, nativo di Newcastle, ha avuto modo di recuperare la parlata nativa con sprezzo del pericolo, dopo dieci anni vissuti in America.
Ritchie si sporca insomma a 360° le mani col suo immaginario di riferimento, prendere o lasciare: le vie di mezzo non sono ammesse e la sua Londra è un calderone multiculturale a dir poco sudicio nel quale trovano posto indiscriminatamente i vichinghi, i “mangiagalli” e lo snaturamento di ogni verosimiglianza tanto storica quanto leggendaria, per non parlare del tappeto sonoro ovviamente ingombrante ad accompagnare la polvere, il metallo, il cuio, il legno, le pietre e tutti gli altri elementi naturali sui quali poggiano le scenografie del film di Ritchie
Non potrebbe esserci dichiarazione d’intenti più emblematica e rivelatrice sul tono dell’operazione, dopotutto, del cameo di David Beckham nei panni di colui che sfida Artù a estrarre la spada dalla roccia…
Mi piace: la coerenza estrema e selvaggia con cui Ritchie rispolvera il proprio immaginario di riferimento, londinese, spavaldo, tamarro
Non mi piace: le derive videoludiche di molte sequenze
Consigliato a: i fan dell’action e dei film che sacrificano la verosimiglianza storica in nome di uno spettacolo ritmato e immemore
Voto: 3/5
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