Karen (Aubrey Plaza) è una mamma single che regala a suo figlio Andy (Gabriel Bateman) una bambola “buddy” per il suo compleanno, totalmente ignara della natura mostruosa del giocattolo, creato in uno stabilimento del Vietnam e pronto a scatenare tutte le sue potenzialità assassine in un gioco al massacro al quale sarà difficile sopravvivere.
Il regista norvegese Lars Klevberg, dopo essersi cimentato con la versione lunga del suo cortometraggio Polaroid in un film omonimo uscito di recente e incentrato sulla componente vintage della paura, entra nel panorama dei reboot horror dei nostri tempi dalla porta principale col remake del classico diretto da Tom Holland (omonimo dell’odierno Spider-Man) nel 1988, divenuto un piccolo grande cult per i fan dell’horror.
Lo fa replicando in maniera pedissequa gli schemi narrativi e le svolte centrali del prodotto originale, ma provvedendo allo stesso tempo ad aggiornarne gli spunti in chiave contemporanea. La bambola assassina Chucky, doppiata in questa nuova versione da Mark Hamill (una scelta decisamente sorprendente e azzeccata) si rinnova con un design piuttosto efficace, che rivaleggia attraverso una buona resa complessiva, sul piano grafico e non solo, col suo spietato monologo di trentuno anni fa.
A sopravvivere è soprattutto l’ironia mefistofelica della creatura, che tuttavia è meno naïf e spontanea del passato e fa i conti con il paesaggio delle tecnologie digitali di oggi: un terreno da caccia che Klevberg gestisce meglio rispetto a quanto fatto con le fotografie analogiche, inserendo nel proprio tritacarne riferimenti divertiti ai giganti dell’e-commerce, come eBay, e a società del calibro di Über e Alexa, in un’interconnessione tra potenze digitali e comunicazione pubblicitaria decisamente non lasciata al caso. Il suo Chucky è un oggetto a tutti gli effetti post-robotico, che un difetto di fabbrica ha trasformato in una macchina ammazzatutti e incline al turpiloquio.
Ad animarla non c’è più, dunque, lo spirito del serial killer Charles Lee Ray, ma il venir meno di alcuni ingranaggi. Un’intuizione decisamente non da poco, che naturalmente spinge la bambola assassina verso svolte inattese rispetto all’originale (il creatore Don Mancini, non a caso, si è dissociato dal risultato rifiutandosi di comparire nei titoli di coda) e regala zampate impreviste, tanto nelle premesse narrative quanto nella mattanza sempre sul punto di sprigionarsi, che dà vita a un seconda parte a dir poco truce e minacciosa. In netto crescendo, rispetto al primo blocco del film, tanto per trovate quanto per ritmo, godibilità e senso dello spettacolo.
I rifacimenti horror, si sa, sono una porzione consistente dell’immaginario horror del presente. Spesso e volentieri sono gratuiti e tendono a spremere all’inverosimile, con discreta faciloneria e senza troppa cura intuizioni del passato, ma per fortuna La bambola assassina riesce a sollevarsi sopra la media di queste pratiche industriali riuscendo a riflettere, con una ludica e gustosa vena anarchica, sui paradossi del capitalismo e sulla sua costante emorragia di umanità (a produrre, tra l’altro, c’è Seth Grahame-Smith, sfacciato scrittore e fumettista autore di Orgoglio, pregiudizio e zombie).
Naturalmente, e a scanso di equivoci, è sempre il divertimento ad avere la meglio sullo spessore degli spaventi e delle loro implicazioni filosofiche, ma tanto basta. Quel che conta è che dell’originale viene replicato soprattuto il piacere raccapricciante e un po’ sornione, con tanto di approfondimento sul legame tra Andy e Chucky e una miriade di riferimenti che spingono La bambola assassina del 2019 a fare meglio dei film più recenti del franchise, da La maledizione di Chucky e Il culto di Chucky, quasi tutti decisamente derivativi e meno ispirati.
Si sprecano anche i richiami, tutt’altro che velati, a Stranger Things (il gruppo di amici di Andy che si coalizza nel finale per fronteggiare la minaccia omicida del giocattolo) e a Toy Story, che viene parodiato in salsa macabra e a più riprese, partendo dal nome del protagonista, Andy, per arrivare a una costante e puntuale rivisitazione del celebre brano della saga Pixar Hai un amico in me. A proposito della relazione incestuosa tra marketing e major cui si accennava precedentemente, l’uscita ravvicinata di Toy Story 4 e de La bambola assassina non può decisamente essere ritenuta casuale.
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