“La battaglia di Hacksaw Ridge” (Hacksaw Ridge, 2016) è il quinto lungometraggio del regista-attore-sceneggiatore di PeeKskill Mel Gibson.
Un film che è un documento imponente, forte, stomachevole, commovente, lancinante e fideistico.
Col fucile e senza fucile, con gli ordini ferrei e con una soffusa è impercettibile umanità da parte di molti forse di tutti. La guerra mastica amaro, amarissimo e il nudo di ‘Hollywood’ con i suoi preziosi gioielli fuori e muscolosi sono l’indice di una virilità non blasfema ma irridente, non volgare ma semplicemente libera dallo stile di muscoli senza cervello e senza cuore. Il vigore fisico e il coito inespresso riducono le esercitazioni militari in uno statuario a-vigoroso e stantio, in un uomo vigliacco e propenso, in un salutare segno di mentore voglia, in un colonialismo vituperato e in un co(g)lionismo di bandiera e quasi da deretano.
Con la (piccola) Bibbia la (buona) battaglia schianta il cervello e i polmoni dei giovani-militari in primissima fila: gli sconti non ci sono affatto. Per nessuno. Nessuno vuole salvare se stesso ma gli ideali di una bandiera e di una nazione: la Guerra in Oriente (siamo nella primavera del 194) e la battaglia nell’isola di Okinawa sono l’emblema trucido, sanguinolento, corporeo, sfiancante, lacerante e orripilante di battaglioni Alleati che vogliono vincere contro i nipponici. Ma la programmata e massiccia invasione anfibia sul Giappone ebbe una resistenza fortissima: le perdite ad Okinawa furono moltissime (oltre 170 mila giapponesi e 70 mila americani); gli Alleati arrivarono alla Bomba Atomica su Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto 1945) per ‘terminare’ la Guerra.
La morte e la morfina, la vita e la speranza, il corpo e il sangue, la famiglia e il destino, la Patria e il coraggio, la fine e l’inizio. Desmond e la Croce Rossa, il ragazzo e l’infermiera Dorothy , la fede e l’amore. Un film dove si condensano contraddizioni impossibili da conciliare: una violenza inaudita e un pacifista irrazionale, una schiera di cadaveri e una salvezza di pochi respiri, una battaglia metallica e un’anima inossidabile, una pallottola continua e uno spirito inscalfibile. La morte e la vita, la guerra e la pace una dentro l’altra, e una fuori dall’altra. La violenza estrema e l’interiorità intensa verso il Supremo danno a Desmond (cristiano e avventista del settimo giorno) una dote sconosciuta a tutti e a quelli vicini di camerata che per fargli cambiare idea (prendere un fucile in mano) massacrano il suo corpo di percosse (inutilmente).
Dirompente dentro lo schermo e fuori dagli occhi: il cinema che schianta la memoria di uno scoppio senza polvere;
Empio è il peccato, uccidere è il più grave ma Desmond conosce la guerra senza fuoco e con un fiore;
Scorre sangue, scorre fede, miete pallottole, miete il cuore, arroventa la morte e arroventa la salvezza di una vita;
Medico di guerra, medico di vita, ostaggio tra fumi, libero tra spenti;
Okinawa e la sua scogliera, l’arrampicata e le sue funi, l’ascesa all’inferno e la discesa nel campo. Una visuale furente e un lettuccio (illuminato) torna nella casa (Luca 5:17-25);
Nemico del fucile, nemico della guerra: un pazzo che corre e scappa tra fulmini e pallottole, toccando corpi sminuzzati e vivi dimezzati. “Aspetta, non ti muovere che torno a prenderti”: diceva a ciascuno che incontrava nella schifezza inusitata e nel pianto senza fine;
Desmond si rivolgeva al Signore per dire ‘ … dammi forza per salvarne ancora un altro..’: una fede incrollabile e senza misura. Un coraggio pieno di vigore interiore: così ricordano gli ‘amici’ ancora vivi alla fine del film. Delle immagini di uomini che rendono un omaggio incondizionato a un ragazzo pieno di tutto ma ‘fuori di testa’. Illogicamente opera nella logica di una guerra senza speranza
Il film è una mistura perfetta kubrickiana-ciminiana dove il colpo da cecchino è continuo e dove l’eroismo non è un miscuglio tra pacifismo e non ma un contraddizione umana perenne dove si erge il silenzio del Signore (come dice il ragazzo Doss) che opera in lui come un fantasma.
Il film in cui Mel Gibson riesce meglio, va oltre ‘Braveheart’, ammonisce ‘La Passione di Cristo’ e padroneggia ‘Apocalypto‘: è la mistura di un attore che si sporca completamente le mani. Non piange sul latte versato ma arricchisce il ‘sangue’ dei perdenti come vittime vincenti e sacrificali. E i viventi ‘salvati’ da Desmond sono l’onda del Signore che da al ragazzo ‘obiettore di coscienza’ e con le mani aperte ‘L’uomo senza volto’ non si copre, si smaschera e ci fa arrampicare (sulla scogliera) verso immagine mai viste.
La prova attoriale di Andrew Garfield (Desmond T. Doss) vale un’intera carriera (quasi a completare, in ‘Silence’ di M. Scorsese, il Padre gesuita Sebastiao Rodrigues). Un qualcosa che va (ben) oltre rappresentare l’impossibile ma il suo sguardo magnetico e il suo corpo esile scardinano un immaginario futile e lineare. Il volto tumefatto e di sangue, il lavacro del corpo è quello che il regista adorna (con spirito combattivo) nell’animo di Desmond e di chi guarda una pellicola dove violenza e commozione si baciano con assurda complicità e invereconda dicotomia.
La messa in scena è veramente portentosa, la musica di grande effetto e tutto il cast partecipa con sintonia maniacale ad una produzione non certamente semplice. Mel Gibson ci offre il ‘suo cinema’ (naturalmente opinabile il suo punto di vista) come meglio non ha fatto finora.
Voto: 8/10.