La caduta dell'impero americano: la recensione di loland10
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La caduta dell’impero americano: la recensione di loland10

La caduta dell’impero americano: la recensione di loland10

“La caduta dell’imper americano” (La Chute de l’Empire Américain. 2018) è il quattordicesimo lungometraggio del regista-sceneggiatore canadese Georges-Henri Denys Arcand.
Ecco che la trilogia (forse non pianificata all’inizio) del regista si conclude dopo “Il declino dell’impero americano” (1986) e “Le invasioni barbariche” (2003).
Un cinema sociale e morale, un cinema sui sistemi e suoi vuoti, un cinema rigido e plastico.
Un fattorino, una prostituta, un ex galeotto, una ex moglie, un ladro in difficoltà e un finanziere dell’alta società. Ecco che il miscuglio anomalo e sui generis si conosce e tenta un’impresa che sembra strana lontana da occhi indiscreti e dietro parvenze di seconde porte e entrate assolutamente secondarie.
Una vita che dice che il denaro è importante ma per pagarlo ci vogliono fiumi di soldi. Come farli. Come arrivare.
Ecco che dopo un incipit veritiero, sfocato e poco da discutere due ragazzi o finti tali si lasciano senza battere ciglio e ciascuno con le proprie posizioni. Di fronte e con lo sguardo lontano, seduti a toccare cibo, discutono sui futuri impossibili. Ecco che il lontano per Pierre-Paul Daoust diventa vicino e a toccata di mano.
Capita di fare una consegna mentre si svolge una rapina cruenta e con sangue. Una sparatoria, una fuga, due borse lasciate per strada, uno sguardo, nessun testimone: qualche secondo e il carico dietro al suo furgone. Arriva la polizia e anche le domande per Pierre. Il frugare dentro il furgone, uno stop improvviso, le portiere chiuse e il ragazzo trentaseienne, dottorato in filosofia e ligio al lavoro, parte, si ferma a casa e deposita il malloppo. Si cambia e ricomincia il giro di consegne.
Il tempo è registrato e l’avvisano dei ritardi ma come prima e mille pensieri, ricomincia la sua (quasi) vita normale. L’intelligenza non paga e tanto meno la filosofia del vivere. Allora cosa dici di fare. Aspettare la fortuna. E mentre il fattorino esce incontra un suo amico barbone che dice ‘credi alla provvidenza’ ‘non c’è ‘, ‘invece c’è…altrimenti sarei morto per overdose qualche anno fa’ (e sembrerebbe il ‘contraltare’ di memoria manzoniana). Bastava aspettare un attimo e la ‘fortuna’ di trovarsi nella situazione sbagliata (rapina) per un’occasione giusta (il denaro) paiono elidersi ma Pierre è sempre un bravo ragazzo. Tra libri e alienazione, separazione e distacco trova il coraggio di unirsi ad una strana compagnia. E la prima voglia è l’occasione di cercare una prostituta di alto bordo. Il sesso come silenzio e sfogo di carte monete troppe da contare. Il rapporto orale e non solo. Pierre e Aspasia si piacciano e si frequentano. E da lì nasce tutto il resto.
Ecco che il racconto del cineasta canadese segue una strategia di incontri casuali e voluti, di vuoti sociali da riempire, di corruzioni adescatrici, di rapporti pari, di viziosi giri e di rivincite senza crimini. La morale di una società priva di sentimenti pieni, il gioco di un mondo corrotto trovano appello tra persone ultime e con aspirazioni da sogno. Il regista non affonda i colpi veri: tutto rimane in una superficie plastificata mascherata da un film di-genere ben orchestrato e pianificato nei dettagli. Un thriller che tale non è, un inganno verso la legge che pare sempre arrivare dopo. E i due poliziotti (pieni di cliché e statuari come un ‘X-files’ tv qualsiasi), Pete e Carla, girano nella Montreal, pensando di ingannare il tempo lavorativo. Una manifestazione, un nascondiglio tombale, dei buoni clienti, le giostre su onlus insospettabili e i ‘barboni’ che credono di essere fuori dal giro. In poco tempo o quasi Pierre, Sylavain e Aspasia vendono le migliaia di banconote con un acume che par non vero.
I posti sono rituali ma come non pensare che prima di entrare nel luogo dei fatti è meglio controllare un’auto davanti dell’ultimo cliente con una valigia ‘roller’ d’ordinanza e un pieno da fuga. Troppo tardi, calibrato al millesimo pur senza l’ansia del film di gran movimento. Pochi stacchi e pochi movimenti di camera. Un film non pieno di ansie e quasi un commiato all’inerme mondo delle burocrazie legislative.
“Mi basterebbe una cucina, un letto, un divano e una tv per guardare lo sport”. Quasi un programma di vita per un ultimo che non aspira altro che dormire sotto un tetto.
Ecco che il ‘barbone’ amico di Pierre-Paul riceve un (vero)regalo inaspettato senza sapere da dove viene. Pierre e Camille sono, in fondo, dei generosi.
Cast vario e corretto; Alexandre Landry (Pierre-Paul Daoust) e Maripier Morin (Aspèasia/Camille) reggono bene con un ammiccamento facile e gentile. Fa capolino il doppio didietro per voglie e pubblico.
Regia di Denys Arcand bloccata e teatrale, sospesa tra i volti.
Voto: 6½ (***) -chi è in giuggiole per il suo cinema trova pane per i suoi denti-

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