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La casa di Jack – La recensione

Matt Dillon è un serial killer misogino e nichilista, depresso e amante dell’arte, nell’horror del maestro danese che arriva in sala, in due versioni entrambe VM 18, dopo il passaggio fuori concorso a Cannes

La casa di Jack – La recensione

Matt Dillon è un serial killer misogino e nichilista, depresso e amante dell’arte, nell’horror del maestro danese che arriva in sala, in due versioni entrambe VM 18, dopo il passaggio fuori concorso a Cannes

La casa di Jack: la recensione del film di Von Trier
PANORAMICA
Regia (4.5)
Interpretazioni (4.5)
Sceneggiatura (4)
Fotografia (4)
Montaggio (4)

Jack (Matt Dillon) è un serial killer. Da qualche parte, in un luogo buio, su un sentiero che porta non si sa bene dove, racconterà a Virgilio (Bruno Ganz) i cinque “incidenti” che lo hanno portato fin lì. In attesa di compiere l’ultima parte del viaggio, e affrontare il suo destino.

Sette anni dopo essere stato bannato da Cannes per aver scherzato col fuoco, autodefinendosi un nazista (lui che nel 1998 aveva fatto suonare, sempre a Cannes, l’Internazionale) e definendo Israele “A pain in the ass”, Von Trier è tornato sulla Croisette lo scorso maggio con un film in cui, sostanzialmente, si costituisce, mettendo se stesso nei panni di un serial killer (Matt Dillon, straordinariamente in parte) misogino, nichilista e ossessivo compulsivo. Un esteta con una visione completamente amorale dell’arte.
Un architetto incapace di edificare una casa se non attraverso i cadaveri delle sue vittime.

A questo serial killer fa dire tutto quanto morirebbe probabilmente dalla voglia di dire lui stesso in una delle conferenze stampa che non gli fanno più fare, a Cannes almeno, in un processo parossistico di autodistruzione pubblica che ormai è solo in parte autoanalisi e catarsi, e in cui è sempre più difficile dire dove la confessione sia testo o invece pretesto.

Von Trier / Jack pesca i tabù uno a uno e li abbatte sistematicamente come birilli: vengono presi di mira bambini, donne e animali. I cadaveri vengono mutilati e poi deformati. Però la violenza non è mai accattivante, non è mai pop: c’è invece una specie di disperazione isterica, una bruttezza respingente e l’umorismo è sempre fiaccato dalla tragedia della dipendenza.

C’è davvero una libertà estrema in tutto questo, la costruzione di una zona franca dentro al clima politico del tempo. È come se a tutte le prediche, gli auspici, i paraventi e le didascalie, Von Trier opponesse il proprio narcisismo, la propria vanità e il proprio (cattivo?) gusto, che nell’improbabile capitolo finale del film trova il suo zenith. Un estro capace di tutto, di acrobazie intellettuali e battute da quattro soldi, di slanci scenografici estremi e di materiale di repertorio, di difficili orrori e incongrua bellezza.

Ma non è che si debba necessariamente scegliere, non è che le due cose si escludano, il punto è che l’una senza l’altra è solo una diversa forma di omologazione. Il cinema di Von Trier continua ad essere quello che si porta addosso i “peccati” di tutti, quello che crea una prospettiva intellettuale, perché è l’unico che continua a porre la questione estetica per eccellenza, cioè quanto sia lecito “estrarre” il processo artistico da quello educativo, e se stessi dalla società, lavorando sui confini del visivo.

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