La chiave di Sara: la recensione di Annu83
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La chiave di Sara: la recensione di Annu83

La chiave di Sara: la recensione di Annu83

La storia della piccola Sara, ebrea di Parigi appena adolescente, costretta a vivere suo malgrado il feroce rastrellamento del ’42 francese non è poi così originale. Ne sono passate parecchie di pellicole di questo genere, magari semplicemente cambiando l’ambientazione, la lingua dei soldati, le pettinature e il modo di vestire, l’architettura delle case e delle botteghe, ma la trama centrale non può cambiare, purtroppo. E allora ci si ritrova a parlare di un film dai sentimenti inevitabilmente a fior di pelle a causa (o per merito) del tema, che ha il pregio di non scadere mai nel truce, neppure quando il primo piano indugia sulle lacrime e le grida della piccola Sarah davanti all’armadio aperto e la mano sarebbe tentata di indirizzarvi dentro l’obiettivo, ma che non offre nulla di nuovo.
Ecco, “La chiave di Sara” non aggiunge, toglie.
Toglie le lacrime e il senso di impotente tristezza che aveva richiamato “Il bambino con il pigiama a righe”; toglie i sorrisi,forzati o meno, che aveva sparso la storia del piccolo Giosuè e del dolcissimo papà Guido, guidata da uno stratosferico Benigni in “La vita è bella”; toglie il pragmatismo e il taglio documentaristico Spielberghiano di un uomo comune in grado di salvare un migliaio di persone.
Ne resta un film bene interpretato dalle due attrici principali, una storia degnamente costruita su un binario di flashback e ritorni al presente, una “nuova” realtà su un’intera nazione capace di schierarsi dalla parte sbagliata solo per accondiscendenza, un invito a riflettere su quello che la Shoah e i campi di concentramento sono stati non solo per una nazione e per un popolo, ma per gran parte di un continente “moderno”, affascinato, sedotto e abbandonato da un’ideologia fine a sè stessa.
Si può inoltre parlare di una buona tecnica narrativa, chiara e capace, a livello temporale, di far distinguere gli avvenimenti anche allo spettatore meno smaliziato grazie a un sapiente utilizzo delle tonalità fotografiche, senza mai tentare l’impresa di impastare tutto solo per regalare un effetto scenico maggiore.
In contrapposizione a ciò che di buono è stato creato, ecco alcuni “buchi” nella pellicola, fatti non sviscerati a sufficienza, magari per superficialità nei confronti di argomenti forse non reputati all’altezza, e che invece, integrati nel contesto, avrebbero fatto figura migliore che non come semplice contorno, come sono stati realmente usati. Il rapporto appena accennato tra Julia e il marito è solo l’esempio più lampante di un’incapacità di staccarsi dalla linea retta della storia, e di creare un’interazione importante soprattutto per evitare un’appiattirsi, lento ma costante, del finale. Un rapporto che in realtà avrebbe migliaia di cose da dire e di sentimenti da mostrare, visto che il destino ha voluto far intrecciare la storia della coppia con quella di Sara, ma che rimarrà per sempre una foto mossa.
Il buonismo di alcuni soldati suona ancora adesso un po’ fuori tema, visto che si parla di una deportazione di quasi 15000 persone tra donne, uomini e bambini. Si arriva addirittura all’impensabile, quando un soldato della guardia, aiuta la piccola Sara e la sua piccola amica a scappare solo grazie a una semplice richiesta tipo “mio fratello mi sta aspettando”. E allora si torna al tentativo di espiazione forzata dei peccati, poco conosciuti, di una nazione.
Nella miriade dei film basati su questo argomento, quindi, una prova sufficiente, ma non brillante. Con un argomento di questa portata si può e si deve fare meglio, nonostante l’inflazione che colpisce il tema stesso. Ormai non basta più toccare solo i sentimenti…

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