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La chiave di Sara: la recensione di Luca Ferrari

La chiave di Sara: la recensione di Luca Ferrari

Il ghetto taciuto è dentro di noi.

“A volte le storie che non riusciamo a raccontare sono proprio le nostre”. Inizia così il racconto di Julia Jarmond (Kristin Scott Thomas), nel suo viaggio dentro una delle pagine meno note della Shoa. Ma forse sarebbe più corretto dire, “le storie che non vogliamo raccontare”. Tra flashback dell’inferno pre-campi di sterminio e intrecci contemporanei con familiari e conoscenti di quelle vittime, il 36enne regista Gilles Paquet-Brenner, ispirandosi al romanzo “Le chiavi di Sara” di Tatiana de Rosnay, punta l’obbiettivo sul rastrellamento ebraico del Vélodrome d’Hiver a Parigi.

È il 16 luglio 1942 e il governo collaborazionista francese dà il via a una serie di arresti di massa di ebrei, ammucchiandoli in modo vergognoso nel velodromo di Parigi e lasciandoli ai limiti della sopravvivenza. Tra di loro c’è la famiglia Starzynski. Mentre moglie e marito verranno deportati, e ivi uccisi nel campo di concentramento di Auschwitz, la piccola Sara (Mélusine Mayance) riesce a scappare trovando rifugio da una coppia di contadini, i coniugi Jules e Geneviève Dufaure (Niels Arestrup e Geneviève Dufaure). A sessant’anni esatti di distanza da quel tragico ma poco conosciuto episodio, la giornalista newyorkese Julia Jarmond sta preparando un servizio sul Velodromo. Ma quando scopre che l’appartamento in cui sta per trasferirsi con il marito e la figlia è lo stesso degli Starzynski, il servizio esce dalle colonne del reportage e diventa una sorta di missione personale, assumendo ancora più significato nel momento che appurerà che il suocero Edouard Tezac (Michel Duchaussoy), all’epoca bambino, si vide bussare alla porta dalla fuggiasca Sara nel tentativo di ritrovare il fratellino che aveva nascosto nell’armadio per non farlo cadere in mano alla Polizia, e ovviamente morto asfissiato. Da allora, di quel fatto non se n’è mai più parlato nella famiglia Tezac. Lo stesso Bertrand (Frédéric Pierrot), marito di Julia, non ne sapeva il niente, e appare molto infastidito da questo segreto fatto emergere dalla moglie. Il suo nonno però ha lasciato una cassetta di sicurezza con documenti precisi di come è proseguita la vita di Sara. Scritti che Edouard non ha mai avuto il coraggio di leggere. Julia col suo permesso, lo farà.

Passato e vita contemporanea si rincorrono. Europa, Stati Uniti e ancora Europa, a Firenze, con l’incontro tra Julia e William (Aidan Quinn), il figlio di Sara (deceduta parecchi anni prima, pare, per un incidente stradale), ignaro di tutto il “passato ebraico” della madre e che si vedrà raccontare questa incredibile storia dall’intraprendente giornalista.

Julia vive una sorta di percorso catartico. La sua volontà di portare a termine un’inaspettata gravidanza, per nulla festeggiata dal marito, diventa metafora stessa di tutte quelle vite falciate brutalmente e senza alcuna pietà dalla mostruosità nazista. Il regista francese risente, per fortuna, della sua giovane età. Dentro il velodromo, è come vedere quello che sta accedendo con le iridi frastornate di Sara. Le gocce di sudore sulla sua fronte mettono in secondo piano il resto della folla urlante. Sono sempre suoi gli occhioni che chiedono un gesto di pietà a una guardia francese del campo, nel tentativo di raccogliere una mela che gli è finita sotto il pesante scarpone. Riuscita a scappare con la complicità dello stesso gendarme, durante la fuga, la sua corsa liberatoria insieme a un’altra ragazzina viene incontro al grano. La telecamera è davanti a loro e raccoglie ogni scampolo di salvezza. Non è la Tarantiniana corsa traumatizzata di Shosanna Dreyfus di “Bastardi senza gloria” (2009). Passo dopo passo affrettato, le due ragazzine paiono spogliarsi di quanto visto accadere. Il successivo e statico galleggiare in un piccolo stagno raccoglie l’eredità di quelle braccia rivolte alla pioggia dell’ingiustamente incarcerato Andy Dufresne (Tim Robbins), nel capolavoro di Frank Darabont, “Le ali della libertà” (1994).

Il 27 gennaio 1945 i cancelli di Auschwitz furono abbattuti. Il 27 gennaio 2012 ancora troppe inferriate e porte blindate d’ingiustizia sono sigillate. Senza che nessuno stia muovendo un dito. Senza che nessuna inchiesta sia stata aperta. Senza che nessuno sia desideroso di mettere in moto la macchina della Giustizia. “La chiave di Sara” non è solo un episodio in mezzo a un oceano di atrocità. È un messaggio al mondo intero: “Tutti uniti dinnanzi alle tragedie del passato. Tutti assassini nell’indifferenza quotidiana di interi popoli lasciati a morire”. Quando inizieremo per esempio a raccontare con il loro vero nome il feroce e dissennato “colonialismo” occidentale nell’Africa e in Sudamerica? Dobbiamo aspettare di venire sconfitti in una guerra mondiale perché emergano tutti quei crimini cui le nazioni europee si guardano bene dal fare chiarezza? Quanto dovremo aspettare perché le Guantanamo di tutto il mondo escano allo scoperto? “La chiave di Sara” lascia un piccolo spazio vuoto nell’io interiore più nascosto di ciascuno di noi. Non basta raccontare una storia perché il mondo possa trovare pace. La maggior parte dicono di voler andare avanti come se nulla fosse successo, ma la Verità, per fortuna, non è solo una prerogativa di certi giornalisti.

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