La città proibita: quella cinese menava forte. La recensione del film di Gabriele Mainetti
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La città proibita: quella cinese menava forte. La recensione del film di Gabriele Mainetti

Arrivata nelle sale il 13 marzo con PiperFilm, la terza regia del cineasta de Lo chiamavano Jeep Robot e Freaks è uno spaghetti kung fu movie all’amatriciana che conferma il lussuoso e travolgente artigianato pop dell’autore

La città proibita: quella cinese menava forte. La recensione del film di Gabriele Mainetti

Arrivata nelle sale il 13 marzo con PiperFilm, la terza regia del cineasta de Lo chiamavano Jeep Robot e Freaks è uno spaghetti kung fu movie all’amatriciana che conferma il lussuoso e travolgente artigianato pop dell’autore

La città proibita Gabriele Mainetti recensione
PANORAMICA
Regia
Sceneggiatura
Interpretazioni
Fotografia
Montaggio
Colonna sonora

1995. Mei (Yaxi Liu), una misteriosa ragazza cinese nascosta in un armadio e cresciuta in cattività a causa della politica del figlio unico nel suo paese (sarà abolita solo nel 2015), arriva a Roma in cerca della sorella scomparsa. Il cuoco Marcello (Enrico Borello) e la mamma Lorena (Sabrina Ferilli) portano avanti il ristorante di famiglia tra i debiti del padre Alfredo (Luca Zingaretti), che li ha abbandonati per fuggire con un’altra donna. Quando i loro destini si incrociano, Mei e Marcello combattono antichi pregiudizi culturali e nemici spietati, in una battaglia in cui la vendetta non si può scindere dall’amore.

Gabriele Mainetti è un autore del nostro cinema mosso da grande romanticismo. Col suo terzo film da regista, La città proibita, uscito nelle sale il 13 marzo senza grande battage pubblicitario (ma con un budget forte di ben 16 milioni di euro), recupera il cuore sentimentale di Lo chiamavano Jeeg Robot, cucendo intorno ai due protagonisti – Mei e Marcello – lo stesso tepore emotivo fatto di tentennamenti e non detti, ma anche di una profonda e istantanea affinità, che segnava le traiettorie dei personaggi di Claudio Santamaria e Ilenia Pastorelli in Jeeg.

Se quel film ha rappresentato, per il nostro cinema, un’appropriazione di un genere americano quale il cinecomic come non se ne vedevano dai tempi di Sergio Leone con il suo spaghetti western, qui il genere d’elezione e da “saccheggiare” è il kung fu movie, calato in un contesto all’amatriciana e quasi da spaghetti kung fu. Questo sincretismo, tanto caro all’immaginario di Mainetti, che pure in Freaks Out (film purtroppo meno character-driven rispetto agli altri due) aveva cercato di mischiare gli X-Men della Marvel con il war movie sulla Seconda guerra mondiale, si rifà qui tanto a Kill Bill di Quentin Tarantino quanto a L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente di Bruce Lee, direttamente ammainato come stendardo ed evocato come feticcio nostalgico, girando delle sequenze d’azione e di arti marziali che non sono affatto amatoriali e hanno anzi i crismi delle produzioni di questa risma imbastite a regola d’arte (non a caso il coreografo marziale arruolato è Liang Yang, già al lavoro su Skyfall del franchise di 007 e Mission: Impossible – Fallout in sequenze da antologia come il pestaggio in un night e la lotta nel bagno, rispettivamente).

Una nota di merito particolare, oltre che a quest’ultimo aspetto, va all’intera operazione, che azzarda qualcosa di assolutamente inedito in Italia, provando a fare, ancora una volta, non solo un’opera cinematografica ma anche un prototipo per il nostro mercato. La città proibita, il cui nome evoca direttamente il ristorante cinese del villain Wang (il cui figlio rapper, Maggio, rimanda invece alla straripante dimensione performativa del mai dimenticato Fabio Cannizzaro alias “Lo Zingaro” di Luca Marinelli in Jeeg), è però anche un film su Roma, città centrale nell’educazione sentimentale di Mainetti, che immerge nella sua amata Capitale i suoi protagonisti modellandoli alla stregua di alter ego: uno suo (Marcello) e l’altro del suo immaginario femminile pop (in questo caso Mei è quasi una sosia di Mulan), non diversamente – ancora una volta – da come aveva agito in Jeeg con Enzo Ceccotti. «Roma ti entra dentro. Qui tutto è permesso e niente è importante. Da noi, in Cina, niente è permesso e tutto è importante», sentenzia lo stesso Wang, interpretato dal bravo, controllatissimo e mefistofelico Chunyu Shanshan.

Dal punto di vista delle scenografie urbane e semantiche, siamo di fronte a un film su Roma con una portata quasi analoga a quella che ebbe, a suo tempo e ormai oltre un decennio fa, La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Troviamo le fughe romantiche in motorino che evocano, e citano direttamente, Vacanze romane di William Wyler con Audrey Hepburn e Gregory Peck, ma anche riprese di monumenti chiave uno dietro l’altro, fino a quel Teatro di Marcello da ricollegare tanto al nome del protagonista, frustrato lavapiatti che sembra la versione cupa, dimessa e ancora più operaia del Pietro Zinni di Edoardo in Smetto quando voglio e ha un che del miglior Edoardo Gabbriellini di Ovosodo, quanto alle eterne, felliniane malinconie del Marcello Mastroianni de La dolce vita.

Per non parlare dell’uso che Mainetti fa di due icone della romanità come Marco Giallini e Sabrina Ferilli: il primo è Annibale, un boss locale arraffone e cinico, uno strozzino rauco, spietato e ovviamente biecamente razzista, come si immagina possa essere l’Italia del 2025, capace di spadroneggiare sul Rione Esquilino e in particolare su Piazza Vittorio Emanuele, vera e propria “Chinatown” capitolina, in compagnia dei suoi sgherri Ciop e Ciop (o per meglio dire “ciop e cioppe”, come li chiama lui). Parla a mezza bocca in un romanaccio impastato e profondo, biascica e smozzica le parole con durezza, è un uomo solo e indurito dalla vita, e però che avrà sempre un impatto a dir poco significatio  e un notevole peso come architrave del racconto, in grado puntualmente di far saltare il banco delle nostre certezze morali e di farci vedere, con dolente, indomita durezza, il risvolto della medaglia (occhio anche alla sequenza in cui esegue in una personalissima versione alla pianola La canzone dell’amore perduto di Fabrizio De André). Ha anche sempre una parola buona e, a suo modo, paterna per il suo Marcello, seppur con una certa dose di moine di troppo e qualche attenzione predatoria verso mamma Lorena che ne sminuiscono e ne scolarono la funzione di padre putativo e vicario.

La seconda, Lorena stessa, è una mater dolorosa, appena lasciata dal marito infatuatosi di una ragazza cinese (Luca Zingaretti conciato come Matt Damon in The Informant!), alla quale la Ferilli dà un piglio malconcio e materno, da matrona romana piena di rimpianti, regalandosi un altro ruolo da antologia per la sua carriera (che meriterebbe considerazione anche ai David di Donatello, proprio come quello di Giallini), dopo quello già indimenticabile di Ramona nel già citato sorrentiniano La grande bellezza.

Mainetti, confezionando due ore e venti di solido cinema di intrattenimento con una fattura che in Italia si vede di rado (anzi diciamolo pure: mai), pur non replicando lo stesso portato iconico pop, manifesto e trascinante del suo capolavoro irreplicato, Lo chiamavano Jeeg Robot, si assesta però su vette alte e, dal punto di vista, drammaturgico, lavorando in scrittura a sei mani insieme agli sceneggiatori assai prolifici di M. – Il figlio del secolo Stefano Bises e Davide Serino, si appiglia più che mai ad archetipiche e fantasmatiche figure paterne, amplificandole in chiave quasi shakespeariana. E si concede, infine, un doppio finale che, con carrellate e approdi simbolici, richiama e cita, con misura, amore, passione e sostanza, addirittura due totem della filmografia di Pier Paolo Pasolini come Accattone (evocato in chiave cristologica, ricordando anche il magistero di Amore tossico di Claudio Caligari) e Mamma Roma, in cui la Ferilli arriva a reincarnarsi addirittura in Anna Magnani. Mica poco.

Foto: @ Wildside, PiperFilm, Goon Films

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