La comune: la recensione di Valentina Torlaschi
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La comune: la recensione di Valentina Torlaschi

La comune: la recensione di Valentina Torlaschi

La prima chiave di lettura che viene da usare per entrare dentro La comune di Thomas Vinterberg è un altro suo film: Il sospetto. Tanto quest’ultimo raccontava una storia individuale, cronaca sofferta dell’esclusione di un singolo da parte di una comunità, tanto il primo fotografa ora la storia di un gruppo, di un processo di condivisione, dei tentativi gonfi di eccitazione di cementare una piccola collettività. Due film complementari nel processo: indagine sui meccanismi della menzogna l’uno, su quelli verità l’altro. Due film complementari nel finale: apparente riaccettazione del protagonista e cancellazione di un incubo dell’uno, straziante espulsione della protagonista e fallimento del sogno dell’altro. Due film complementari che s’incastrano alla perfezione nella volontà di sviscerare i meccanismi di convivenza della società – tradizionali e non – per metterne in luce tutte le contraddizioni. Un discorso che ovviamente ci riporta alle origini della carriera del cineasta danese, a quel Festen – Festa in famiglia in cui, con un linguaggio assai più disturbante dettato dalle regole di Dogma 95 scritte insieme all’amico Lars Von Trier, Vinterberg scandagliava il lato oscuro della famiglia borghese che si voleva nascondere sotto il tappeto dell’apparenza.

Rispetto a Il sospetto, i toni de La comune sono ovviamente più leggeri: siamo più dalle parti della commedia, ma dal persistente retrogusto amaro, e tutto il film è attraversato da una sottile malinconia per approdare a un finale duro da digerire dove il dolore della separazione è davvero tagliente. Nel dettaglio, la storia è questa: siamo nella Copenaghen del 1975, Erick eredita una casa di 450 mq ma viste le alte spese di manutenzione decide di venderla, e così sua moglie Anna ha l’idea di invitare a vivere con loro altre persone per dividere i costi e creare una comune.
Una storia raccontata senza alcuni stereotipi e grande verità: La comune è illuminata da uno sguardo sincero che nasce dal vissuto dello stesso Vinterberg che in una comune ci ha vissuto davvero dai 7 ai 19 anni. Il regista sa bene di quel che parla, ha già elaborato-raccontato-approfondito “questo periodo folle e fantastico” in un suo spettacolo teatrale, e questa verità la si sente in ogni inquadratura.
È interessante, poi, vedere la “temperatura raffreddata” della comune danese dove la convivenza anti-borghese nasce da un notaio a ha regole precise (anche se poi non tutti le rispettano) mentre i papabili coinquilini si selezionano facendo dei veri e propri colloqui.

Assolutamente credibile anche il gruppo di bravissimi attori, sempre misurati e attenti a non scadere mai nella macchietta. Un plauso particolare, qui, alle tre generazioni femminili rappresentate dall’adolescente Martha Sofie Wallstrøm Hansen, la giovane Helene Reingaard Neumann e la più matura Trine Dyrholm (che si è meritatamente aggiudicata l’Orso d’Argento all’ultimo Festival di Berlino). Tre donne lontane per età e per carattere; tre donne che il destino mette in contrapposizione, ma che non accettano lo scontro, provano ad aiutarsi, ad accettarsi, salvo finire per rovinarsi la vita a vicenda.

Meno riuscito de Il sospetto (che si era guadagnato anche una candidatura agli Oscar), soprattutto a livello di scrittura, La comune è certo un’opera molto sentita e interessante nel fotografare una pagina di storia recente, eppure rimane la sensazione che il racconto emozionale proceda con il freno a mano, che non si riesca a trovare un equilibrio tra il piano individuale della storia e quella collettivo. Peccato.

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Mi piace: Lo sguardo sincero con cui Vinterberg racconta, con amore ma anche mettendone in luce le contraddizioni, l’utopia della comune, di questo modo di vivere nella società basato sulla condivisione e aiuto reciproco ma che può portare a dolori non rimarginabili.

Non mi piace: La sceneggiatura fa fatica a tenere insieme il piano individuale e collettivo del racconto e si ha la sensazione che la narrazione proceda un po’ col freno a mano tirato.

Consigliato a chi: A chi ama le famiglie non tradizionali.

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