“La favorita” (The Favourite, 2018) è il settimo lungometraggio del regista-sceneggiatore greco Yorgos Lanthimos.
In un sabato-cine con una sala per metà piena (o se preferite metà vuota…con oltre duecento posti) si esce dalla proiezione del film un po’ assopiti e non entusiasti rispetto a scritture (quasi) di entusiasmi e nomination a iosa. Si fa fatica a respirare per tenersi su e non arrancare nella seconda parte..che risultano evidente e col pilota automatico.
Qualcuno stravede per questo tipo di approccio al racconto, qualcuno sbava in queste rutilanti nefandezze da regina, qualcuno annuisce a ciò che il cinema dice e disdice, qualcuno si diverte molto e senza ritegno. Ma la verve artistica scompagina il meschino potere con servi(g)zi quanto mai sensitivi e con un piano che alla lunga diventa ricco e basta. Ripetitivo e uguale. Quello che pensi può accadere.
Uccelli in pista, per saper colpire; Passere varie, senza essere donna Iole di borgo e di palazzo; Parigini sguatteri(ne), per una ripulita vera tra sessi opposti e vili menzogneri; Duro come un marmo, per una prima notte da tromba e senza luci di candele spente; Licenziosità lesbiche, per mani perforanti e in ogni dove; Vanità da parrucche, tolte e dipinte, finte e spaziose, cadenti e raggianti. Manico di potere, quando il su e giù è voluto senza vederlo. Ancora altro con doppi gusti, vomiti, cibi e transumanze di parrucche e candele accese di mortuaria blasfemia.
In un gusto becero e postmodernista il regista ci sta e ci prende molto di più di quello che il potere vuole disegnare. Una regina misera e sconcia, due damigelle scodinzolanti e forvianti, un lusso di glamour rovesciato per un film che lecca ogni situazione, in tutti i sensi, per farsi ammirare e rigirare il tutto e acconsentire la verve attoriale e le battute bene (o male) ri(s)poste.
Il miscuglio costumi, palazzi, visi, mascara, parrucche, candele, luci e corse, cibo e vomito, come mani e intimi, rimane in atmosfera sudi giri per calpestare escrementi fatui (senza nessun francesismo), inumidire polpastrelli, scandagliare i corridoi e rimettere ogni cosa a suo posto. Un vaso-contenitore
dove ogni sconcio vomitevole da il la per un nuovo banchetto e dove un bacio sconcio tra donne scompiglia la triste voluttà di una diceria in alto (spettegolare è vietato perché ogni buon viceministro non ha potere e ogni decisione va oltre una lettura faticosa della Regina Anna).
Siamo agli inizi del settecento quando Anna Stuart divenne regina (1702) di Inghilterra, Scozia e Irlanda e poi del Regno di Gran Bretagna fino alla sua morte (1714). Mentre il suo Paese è in guerra con la Francia , la Regina si sente ‘attorniata’, con vicende alterne, dalle cugine Abigail e Sarah che non lesinano colpi bassi e virtù nascoste.
La guerra è in atto mentre le ‘amanti’ sbeffeggiano ogni diceria e la Regina, a mala pena, riesce a dire quel che pensa (veramente pensa poco e scodinzola il suo piacere tra i conigli di disparità e il mangiare sul pavimento). Un potere-bambina e una vistosa scafata donnaccia sperimenta il piacere senza senso di civiltà.
La routine di quel sarcasmo inglese e dello sberleffo a loro stessi prende il largo in questo film scomposto e anomalo ma non riesce a trattenere il gioco per andare a frugare il troppo senza fare centro. Un centro di dicerie e senza veri segni s dovere. Alla fine diventa un’opera fatua e miserevolmente sfiatante (come una percossa odorosa all’inodore mondo dello sfiato posteriore).
7: al settimo foglio va da se…e la lettera può andare bene; 17: conigli e numeri biblici, resoconti e maldicenze umane. Effettivamente i numeri ci dicono… ma sembra tutto lampante e quasi ordinario.
Come il finale in sfumatura che in bella compagnia si allargano e moltiplicano per un grigiore è uno schermo nero…che si ferma per più di qualche secondo. Titoli di coda e musica ritmica già memorizzata.
‘La favorita’ per premi e misti lana, per ridipingere il Kubrick di ‘Barry Lyndon’ e sperare l’arguzia irridente di un Altman mai domo (vedi ‘MASH’). O un Ferreri de ‘La grande abbuffata’ con sopiti rigurgiti di stanze abbellite e maestranze usate per piaceri carnali. Morte e vita senza ritegno alcuno.
Cast ritmico e affiatato (in afflato di costumi e di ridenti labbra) con propensione allo sguardo fisico e alle voluttà di comando e di gusti vari. Finale adamitico per conigli e svestito per umani mentre cibo e altro si aiutano a vicenda.
Olivia Colman (Regina Anna), Emma Stone (Abigail Masham) e Rachel Weisz (Sarah Churchill) è il trio delle meraviglie per un film sospeso tra il glamour classico e l’incandescente modernismo (virtual-chic).
Regia aperta ai commensali per primi prelibati e (forse) premi in carrozza (costumi e scenografie).
Voto: 6/10 (**½).