“La felicità è un sistema complesso” (2015) è il quarto lungometraggio del regista modenese Gianni Zanasi.
Un film che si distingue nel grigiore di molto ‘roba’ che si dimentica facilmente ma che lascia l’amaro in bocca per non scaraventare indietro la soma da portare e schizzare in alto come alter ego di un immaginario sociale recondito e di una spazzatura umana disperante e arrogante nella sua mediocrità.
Ciò che colpisce è l’arguzia di una ‘commedia’ amara e di un vitale mo(n)do di smascherare il silenzio e l’intelligenza nascosta dentro una semplicità di volti adolescenziali e di persone sconosciute. Un film premiante e attento ai volti e ai luoghi con inquadrature e carrellate mai lasciate per caso con un assorbimento di tristezza-musicale pastosamente vitrea e ballerina. La montagna, la campagna, il lago, la galleria e una piazza attorniano gli sguardi dei ragazzi in festa che scivolano tra i prati, alzano i piedi lungo i sentieri e corrono in skateboard lungo le strade finché un incidente non ferma tutto come una nube oscura in un cielo limpido. I luoghi rimangono ma le paure e i vuoti interiori sbattono contro persone che sembrano vicinissimi. Un corto circuito di avvolgimenti umani pieni di pifferai falsi.
Filippo Lievi (Fillippo De Carli), diciottenne, e sua sorella Camilla (Camilla Martini), tredicenne. Lievi si ritrovano orfani a gestire la ditta dei loro genitori: oltre quattromila dipendenti con un rischio di chiusura. Tutto in un ordinario menage: la notizia, l’elicottero, il funerale, la riunione e il passaggio di consegno dove le mani dei due ragazzi si stringono dietro le poltrone (invadenti) dei minuscoli corpi mentre i corpulenti sguardi della sala si scrutano in un messaggio di becero buonismo. E’ a iosa ogni sorriso represso e i visi delicati di due indigesti al potere.
Enrico Giusti (Valerio Mastandrea) è lì per fare il suo lavoro di intermediario e per fare ‘fallire’ la rinascita di un’azienda con la fiducia ‘sorridente e ammaccata’ che Filippo pensa di avere da un cultore del nulla umano (con un padre fuggito in Canada per fallimento e un fratello in perenne disastro) e da uno ‘strozzino’ del cuore desideroso di vero aiuto. Filippo contro i mulini a vento in una società di ‘avvenenti masturbatori’ del denaro altrui si incazza sul serio e fa (quello che può) per mettere i bastoni alle ruote lisce di gentaccia ordinaria e bluastra nel volto.
La fidanzata di Nicola irrompe negli schemi costruiti e riesce a rompere la cristalleria di neuroni già pronta per i piccoli rampolli. Tutto si innesta come un vaso di pandora senza nulla scena eclatante ma con un gusto alla somma di innesti semplici e di avvenenze dimesse: il vento soffia leggero e l’incudine dentro di noi pensa do non avere il martello negli altri. Certo manca il ‘fervore’ biasimante di una rozzezza di certi personaggi italici e di attori che provano a districarsi (bene) con un pugno allo stomaco (vero) ma il cinema di Gianni Zanasi è agli antipodi o meglio accarezza piano i suoi ‘volti’, gestisce con minuzia ogni particolare e condisce con giusta parsimonia gli incontri e le sfaccettature. E’ un girare esilmente catartico e musicalmente effervescente; i chiari-scuri, i colori dentro, le frasi si cuciono senza un costrutto veramente ragionato ma somigliano a dei buchi di respirazione collettiva dove ciascuno può prendere il proprio o mettere la sua piccola idea scolorita. E le immagini con la colonna sonora tristemente favoleggiante e lugubremente festosa irradia una malinconia tremante e un sorriso (forzato) dalle battute di Enrico. Un misto di tanto cinema dove sembrano aggrovigliarsi sensori di altro cinema (connesso) europeo e non solo. Forse è solo chiosa modernissima di una settima arte in evoluzione.
Certe lezioni restano (il fulgore iniziale della festa, il silenzio azzerato della musica, i fermo-immagine sugli ambienti e la postura nella messa in scena) ma si ha (anche) la sensazione di un sovrappiù che incide sulla piena riuscita della pellicola mentre Enrico ripreso da dietro va avanti come una passeggero nuovo (un finto laureato con la ventiquattrore) di zecca e un new-cinema da sperare.
Valerio Mastandrea (‘placcato’), Giuseppe Battiston (‘volano’) e Hadas Yaron (‘leggera’) è lo strano trio da cui si dipana il vivere angusto e il tempo in apnea perenne di un lavoro incerto (dentro una ditta) e uno strano (fuori da ogni ditta): una scambi abilità di logiche modeste e di argomentazioni para-programmatiche con un andare avanti indietro negli gesti e nei passi e dove l’eroina, la felicità, il fetore e l’incontro diventano tutt’uno. Una regia misteriosa, asettica e spiritosa aleggia nel film con rimpianto d’opera eccelsa.
Voto: 7+/10.