La foresta dei sogni: la recensione di Jole de Castro
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La foresta dei sogni: la recensione di Jole de Castro

La foresta dei sogni: la recensione di Jole de Castro

Un film particolare, destinato a dividere come non mai. Due uomini perduti dentro una foresta buia e fredda, un mare di alberi, come enunciato dal titolo, che pensavano entrambi di suicidarsi ma invece decidono di andare avanti, appoggiandosi l’uno all’altro.
La foresta è quella fitta e misteriosa di Aokigahara, altrimenti conosciuta come “La foresta dei sogni” e si trova in Giappone, alle pendici del Monte Fujji. E’ un luogo al limite della sopravvivenza, che nasconde insidie di ogni genere oltre ad essere popolato da spiriti che non trovano pace e in lontananza emettono strani lamenti.
Stupisce Gus Van Sant con quest’opera così lontana dal suo stile, che non può essere apprezzata da chi non sia dotato di un elevato senso di spiritualità e una spiccata predilezione per le storie di natura intimistica, introspettiva.
E’ un viaggio affascinante, intenso, che ci cattura fin da subito. Fin dalla prima scena si intuisce che la foresta, il “mare di alberi” è la metafora di qualcosa altro, un luogo dell’anima. Che “nulla è come sembra” come dice uno dei due protagonisti, quel Ken Watanabe già ammirato ne “L’ultimo samurai”, che riesce a comunicare con la forza dello sguardo e possiede una carica interiore che ti scava dentro.
Che cosa porta il protagonista principale, Arthur Brennan ad entrare nella foresta che è per molti l’anticamera della morte? Cosa lo divora a tal punto da desiderare l’oblio per l’eternità? La trama si dipana lentamente mentre le scene di sopravvivenza (suggestiva la fotografia noir che traduce in immagini il tormento interiore dei due fuggitivi) si intervallano ai flasback in cui riemerge il ricordo della moglie di lui, la bella e, come sempre, brava, Naomy Watts. Così scopriamo che lei era un’alcolizzata, che erano infelici da tempo e che forse lui è mosso dal senso di colpa e quel pungolo che lo dilania in profondità non è che il dolore per la morte di lei.
Straordinario Matthew McConaughey, come sempre. Intenso, impegnato quanto basta in questo ruolo inconsueto ed estremamente lontano dai suoi precedenti. Una storia d’amore potente, che si svela mano a mano, superando la banalità, fino al terribile colpo di scena finale. Un film che va dritto al cuore, come molti altri puntualmente ignorati dalla critica e dall’Accademy forse troppo avvezza a soffermarsi sul rigore formale, trascurando che ciò che conta in un’opera, aldilà di tutto, è quello che riesce a trasmettere. Aldilà della perfezione tecnica di una scena girata o dei meriti di una sceneggiatura, il cinema è sempre e comunque magia. Ci sono pellicole che se anche risultano perdenti ai punti, come un’esibizione sportiva non proprio perfetta, vincono comunque perchè in qualche modo riescono ad arrivare al pubblico, cosa che il freddo rigore formale a volte non riesce a fare.
Come dire che un’immagine, un’emozione valgono più di cento parole. E’ per questo che andiamo al cinema, no?

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