«Se dovessi parlarvi di lei, della principessa senza voce, che cosa vi direi?»
Siamo nella periferica Baltimora dei primi anni ’60 e la principessa della frase qui sopra è in realtà Elisa, una donna delle pulizie muta che fa il turno di notte nei laboratori governativi Occam, dove gli scienziati americani stanno ricercando nuove forme di tecnologia per portare i propri astronauti nello spazio prima di ricevere ulteriori umiliazioni dai sovietici.
La sua solitaria routine a base di uova sode e masturbazione nella vasca da bagno cambia per sempre quando al laboratorio viene portata una creatura acquatica antropomorfa, un essere spaventoso ma in grado di comprenderla e comunicare con lei come nessun altro.
Il sadico direttore decide però di far abbattere il “mostro” per poi studiarne il cadavere e allora Elisa, insieme alla loquace collega Zelda e al vicino di casa Giles, architetta un piano per restituirgli la libertà.
Per quanto bizzarro possa suonare il contesto che vi ho raccontato fin qui, “La Forma dell’Acqua” potrebbe essere il film più poetico e riuscito dell’anno, oltre che la produzione che ci si aspetta collezioni il maggior numero di statuette alla prossima cerimonia degli Oscar, che si terrà il 4 marzo.
Con ben 13 nomination, tra cui quelle per miglior film e miglior regia, di cui ha già vinto i corrispettivi riconoscimenti ai Golden Globes per un totale di 84 premi in costante aggiornamento, la nuova favola gotica di Guillermo Del Toro ha tutti i numeri e i pronostici dalla sua parte.
Potrebbe quindi arrivare il coronamento della carriera anche per il regista cinquantatreenne messicano, il terzo nel giro di pochi anni a salire nell’Olimpo dei filmakers più influenti dopo i connazionali Alfonso Cuaron (“Gravity”) e Alejandro Gonzalez Iňarritu (“Birdman” e “The Revenant”).
Del resto Del Toro non è nuovo al successo, anche se il suo stile molto personale e la predisposizione per i temi ancestrali hanno finito per creare un rapporto di amore/odio tra lui ed Hollywood: il film di esordio “Cronos” del 1992 lo ha portato negli Stati Uniti a dirigere l’horror “Mimic” e poi “Blade II”, ma è con pellicole più artigianali in lingua spagnola come “La Spina del Diavolo” e “Il Labirinto del Fauno” che il suo talento ha potuto esprimersi senza freni produttivi.
Del Toro ha anche dato il proprio contributo al mondo dei cinecomics con “Hellboy” del 2004 ed il suo sequel, con protagonisti il suo attore feticcio Ron Perlman ed il trasformista “senza volto” Doug Jones.
Quest’ultimo, grazie alle sue doti di contorsionista ed i movimenti sinuosi da ballerino, ha incarnato
le creature più affascinanti del cinema di Del Toro, dal personaggio di Abe Sapiens in “Hellboy” al fauno del film successivo, fino allo straordinario uomo-pesce de “La Forma dell’Acqua”.
Dopo il passo falso di “Crimson Peak”, che Del Toro difende definendolo un film incompreso, di certo possiamo definire “La Forma dell’Acqua” il suo lavoro migliore, che racchiude e dosa con incantevole ispirazione tutte le tematiche a lui care e che ha stupito pubblico e critica vincendo a sorpresa il Leone d’Oro come miglior film all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, il massimo riconoscimento di un festival che di solito premia film ben più “coi piedi per terra”.
Questo film sembra un sogno e come tale fluttuerà nella vostra testa per giorni, è una favola ma in certi momenti l’intreccio onirico lascia intravedere dettagli della realtà del tempo in cui vivono i personaggi: il razzismo segregazionista verso le persone di colore, la sottomissione della donna e la repressione dell’omosessualità.
I protagonisti sono tutti degli incompresi, personaggi alla deriva a cui mancano dei pezzi per poter realmente funzionare: Elisa è invisibile per gli altri perché muta e zitella, tranne che per la protettiva collega Zelda, che però a casa è vessata da un marito violento, e per il vicino di casa Giles, un artista brillante col difetto di essere gay quando ancora non si poteva.
Gli eroi di questa storia sono quindi dei diversi, persone fuori posto, nate troppo presto o troppo tardi, e anche gli antagonisti, ovvero lo scienziato ed il militare sadico, cercano di nascondere la propria inadeguatezza finché gli eventi li costringeranno a mettersi completamente in gioco.
L’unico che vede solo l’essenza delle persone è la creatura acquatica prigioniera, a lui non serve la voce per comunicare con Elisa e non le importa se è muta.
I loro primi incontri al laboratorio sono un po’ spaventosi, ma la donna subisce da subito una strana fascinazione che alimenta con approcci sempre più efficaci, fino a guadagnarsi la fiducia dell’uomo anfibio nutrendolo con uova sode e facendogli ascoltare vecchi dischi di Benny Goodman.
La protagonista Sally Hawkins, che esprime mille emozioni senza dire una parola, è in grado di incantare senza essere attraente e grazie alla potenza della propria interpretazione è la principale contendente all’Oscar come Miglior Attrice Protagonista contro l’inossidabile Meryl Streep (“The Post”), Frances McDormand (“Tre Manifesti ad Ebbing, Missouri”), Saoirse Ronan (“Ladybird”) e Margot Robbie (“Tonya”).
Per chi ancora non lo avesse capito, il vero mostro della storia non è quello marino, bensì il colonnello Strickland interpretato dall’esperto in ruoli minacciosi Michael Shannon; il suo personaggio è un uomo talmente convinto della propria superiorità, da non capire di essere un bigotto, razzista e sessista, eccitato dalla sottomissione altrui.
Il ruolo più riuscito e malinconico del film è quello dell’attempato disegnatore di locandine che vede la sua arte messa in secondo piano dall’avvento dei poster fotografici, un sognatore amante dei vecchi musical in tv che si riempie la casa di torte che non gli piacciono solo perché segretamente innamorato del commesso del negozio di dolci: Richard Jenkins, alla sua seconda nomination come Miglior Attore Non Protagonista, questa volta ha già la statuetta praticamente in tasca.
Completano il quadro la sempre deliziosa Octavia Spencer, in un ruolo a cui ormai è però assuefatta, ed il talentuoso Michael Stuhlbarg, che si fa notare in questo e negli altri due film più belli del 2018, “The Post” di Spielberg e “Chiamami Col Tuo Nome” di Guadagnino.
La qualità degli attori che compongono il cast de “La Forma dell’Acqua” è eguagliata dalla composizione visiva ed artistica della pellicola, dalle scenografie imponenti e curate nel minimo dettaglio fino alle musiche soavi di Alexandre Desplat: queste ultime, unite alla scelta del colore verde come predominante e l’atteggiamento resiliente della protagonista, fanno sì che questo film abbia diversi punti in comune con “Il Favoloso Mondo di Amélie” di Jean-Pierre Jeunet, un altro regista sognatore con cui Del Toro condivide alcune somiglianze nello stile.
Ma dopotutto il visionario cineasta messicano coglie l’occasione per omaggiare il cinema che ha amato fin da bambino, da quando guardava in tv i vecchi film in bianco e nero e immaginava che alla fine la bella si innamorasse del mostro della laguna nera.
L’intera vicenda è anche una raffinata rilettura de “La Bella e la Bestia” in versione non-Disney, più vicina a quella che il regista francese Jean Cocteau realizzò nel 1946.
La protagonista Elisa vive in un appartamento appena sopra una maestosa sala cinematografica ed il televisore dell’amichevole vicino di casa trasmette di continuo vecchi musical americani degli anni ’40; anche la fantasia romantica che prende forma nella sua mente è una scena da musical, ispirata ai duetti danzanti di Fred Astaire e Ginger Rogers, in cui la cenerentola muta immagina di cantare “You’ll Never Know”, che vinse l’Oscar come miglior canzone nel 1943.
“La Forma dell’Acqua” potrebbe vincere il premio come miglior film perché è una favola per adulti che parla del passato ma riflette i timori del presente, senza però alcuna traccia di cinismo, una pellicola poetica ed avvincente che non disdegna un po’ di orrore ed un pizzico di sesso.
La maestria di Guillermo Del Toro sta nel mostrarci la vita più semplice e l’ottimismo di fondo degli anni ’60, della presidenza Kennedy coi diner e le immense Cadillac, innervandola con elementi gotici e fantastici che solo apparentemente rappresentano una minaccia all’armonia sociale.
Tutto ciò è al servizio di una deliziosa parabola sulla diversità, i cui eroi sono gli ultimi, i diversi e i freaks, un film fantastico per genere e qualità, dalla parte del “mostro”.