La fratellanza
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La fratellanza con Nicolaj Coster-Waldau

Jacob Harlon (Nicolaj Coster-Waldau), uomo d’affari e padre di famiglia, si becca l’accusa di omicidio colposo per aver causato la morte del suo migliore amico Tom (Max Greenfield), avvenuta in un incidente d’auto, e finisce dietro le sbarre. In carcere le cose cambiano molto velocemente e il baratro nel quale Jacob sprofonda lo porterà a farsi suggestionare dalla fratellanza ariana. In breve tempo diventerà Moneyman, il suo alter ego da detenuto, completamente privo di scrupoli.

Non c’è certo penuria, in giro, di film carcerari (un genere che continua ad essere estremamente frequentato), ma meno sono i film che si concentrano, con una ferocia pressoché totale come in questo caso, sui meccanismi interni al microcosmo della prigione e su ciò che essi comportano e mettono in moto negli esseri umani. La fratellanza di Ric Roman Waugh è uno di questi, un film secco e durissimo che non fa sconti e lavora a mani nude su un tema cruciale come la violenza razziale come motore di disuguaglianze sociali (e viceversa), ma anche sull’alienazione dell’individuo e sulle modalità attraverso le quali il carcere è in grado di ricreare strutture e meccanismi tribali.

Un film di tatuaggi esposti e corpi massicci, La fratellanza, ma anche un lavoro puramente di genere che non si sottrae dal fare i conti con le controversie della galassia che sceglie di rappresentare. Chiaramente nessun film contemporaneo, probabilmente, potrà eguagliare la forza e l’impatto del più grande film carcerario del nostro tempo, Il profeta di Jacques Audiard, ma anche se con molte meno ambizioni e alcune lacune di scrittura La fratellanza riesce a mettere in scena la dimensione classista di un mondo rovesciato, dove tutto ha un prezzo e il nome da detenuto del protagonista, non a caso, sarà proprio Moneyman.

Lodevole la prova del bravo Nikolaj Coster-Waldau, il celeberrimo Jamie Lannister de Il trono di spade, ma accanto alla sua performance c’è un telaio di situazioni altrettanto interessante che si muove tra pezzi di memoria (lettere, disegni) e silenzi imbarazzati e rotti dal piatto (nei colloqui, per esempio). Un approccio che non contraddice certo la violenza, ovunque e sempre prioritaria, ma impedisce ad essa di scivolare verso la retorica del degrado e le regala qualche sfumatura in più. Altrettanto equilibrato anche il finale, in cui alla logica dello scontro segue quella della mediazione e della compensazione.

Mi piace: un film secco e durissimo sull’alienazione dell’individuo e sui meccanismi tribali in carcere. La prova lodevole di Nikolaj Coster-Waldau.

Non mi piace: alcune lacune nella sceneggiatura. 

Consigliato a: chi ama i film carcerari come Il profeta di Jacques Audiard.

Voto: 3/5

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