Roma. In una calda mattina estiva si sveglia la città eterna, e i monumenti che la decorano appaiono di una bellezza spirituale e sublime. Una musica angelica accompagna la telecamera, che inquadrando il Gianicolo rende partecipi della scena un gruppo di turisti orientali. Poi una caduta. Un urlo. Fine della sublime e spirituale bellezza: la festa ha inizio!
Un mondanità ottusa e sfrenata sfregia con orgoglio e superbia la capitale, tra musiche latino-americane, hit del momento, droga ed alcool. Ci sono tutti, dall’avvocato all’aspirante teatrante, dalla donna oggetto al fenomeno da baraccone, dalla ex soubrette televisiva al famoso ed arrogante regista. Ci sono proprio tutti alla festa per i sessantacinque anni di Jep Gambardella, che nella mondanità ci è caduto troppo presto per uscirne incolume alla sua età. Uno scrittore divenuto famoso grazie ad un solo romanzo, L’Apparato Umano, e che lavora in un’importante rivista femminile. Un esteta, sempre elegante e raffinato quando ritiene utile, ma volgare e diretto quando serve. Un donnaiolo, tanto da non ricordare quante siano le donne con cui è stato a letto, ma anche sensibile, colto, oratore e filantropo o misantropo a seconda delle occasioni. Insomma, uno di quei personaggi dai quali non si può che rimanere colpiti, interpretato meravigliosamente da Toni Servillo, con uno sguardo spento, una parlata napoletana effeminata e una lentezza nei gesti, nei modi e nel linguaggio che catturano dal primo all’ultimo fotogramma in cui appare.
Il nuovo film di Paolo Sorrentino vuole essere uno spaccato dell’Italia odierna, raccontandola però non attraverso una trama articolata, con un filo logico concepibile e che abbia, di fondo, il tema della decadenza culturale dei nostri giorni. No. La decadenza morale e culturale del nostro paese non ha bisogno di essere raccontata, ma di essere descritta attraverso la potenza delle immagini, attraverso i contrasti che si creano accostando gli incostanti (scusare il gioco di parole) e sparuti sprazzi di bellezza allo squallore umano. Un’opera, La grande bellezza, nella quale non possiamo che riconoscerci, alcuni come individui, molti come popolo e altri ancora in entrambi i modi.
Sorrentino riesce, attraverso appunto la poetica dell’immagine, la raffinatezza della regia e la bravura di Servillo, a descrivere scena dopo scena lo squallore di un paese in crisi e l’ipocrisia che regna sovrana, Felliniano come non mai nell’utilizzare sfacciatamente e con astuzia canoni stilistici che hanno reso capolavori come 8 e mezzo o La Dolce Vita dei veri e propri topoi cinematografici. Tinte oniriche di cui un esempio lampante è “Il mare sul soffitto”, l’associazione a ricordi passati come delineazione psicologica del personaggio, l’amore perduto, la crisi di creatività e di esistenza e il vero caposaldo del cinema del sommo Fellini: Roma. La capitale è ipnotica, paradisiaca, quasi fosse solo un sogno, limpida e accarezzata dal sole di giorno, come se gli edifici fossero velluto, e cupa, di una tremenda bellezza di notte, quando Jep passeggia solitario per le sue vie.
Se però la prima parte del film è perfettamente equilibrata, con picchi di estro creativo puro, una storia, quella di Jep, che pian piano si delinea e fa conoscere il personaggio al pubblico e un uso meno spinto di tinte surreali e sognanti, la seconda risulta invece un po’ troppo retorica, ridondante e con esercizi di stile leggermente eccessivi, volendo a tutti i costi trattare temi importanti ma senza mai prendere una ferma posizione. Infatti Jep è neutrale, non giudica, lui vive. Lui è alla ricerca della “grande bellezza”, l’estatica sensazione di completezza. Ma la vera, pura ed eterea bellezza è totalmente sedimentata sotto lo stesso squallore umano e la stessa decadenza che proprio lui contribuisce a perpetrare. L’amore è la vera bellezza della vita. La morte l’unica salvezza per chi perde tale dono.
Voto: 8.5/10
Luca Ceccotti
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