“La La Land” (id., 2016) è il terzo lungometraggio del regista di Providence Damien Chazelle.
Eccolo. Siamo al film di cui si parla dopo premi a iosa (7 Golden Globe) e le quattordici candidature (record) ai prossimi Oscar. Un film da vedere come dicono gli incassi oltreoceano e dalle lusinghe di molti con voti mediamente alti. Ecco sì, fortissimamente sì… ma alla fine ci si accorge che qualcuno non è d’accordo.
Per quanto conta mi metto nella lista dei secondi: un film non molto avvincente, alquanto scialbo nella struttura narrativa, mielosamente convenzionale e anche timido nei cliché da ballo-musicale.
L’incipit che pare roboante e ben assortito (in un ingorgo di traffico super a Los Amgeles sopra un ponte…lungo come un ballo da riprendere) sa di lontananza vistosa da ogni leggerezza e persuasione prima che i cofani delle auto non reclamano il ‘grease’ di qualche decennio fa. Il gioco leccornia si contrae e si mastica come chewing gum di dolcezza ammiccante e un fruscio di un medio alzato come (s)creanza moda di un turbine volgare post-moderno.
Perché il Cinemascope reclamizzato (per allargare lo schermo) si chiude con il The End passato in gloria mentre il Grande Schermo urge basito di qualcosa di vero e di nuovo. E per allestire una ‘Hollywood’ rigenerante il più mesto ‘coriandolo’ carnevalesco ci dona un servizio ‘di bambole’ una dentro l’altra con una musica che si apre a richiesta senza una vera emozione. Certo il finale ad incastri suggerisce il bello ma quindici minuti quindici non sollevano il tip-tap di una pellicola troppa allineata per un gusto (laconico) e pop(peggiante).
La, la colpa è di qualche abbaglio o forse ho visto male, sta di fatto che una noia leggera premia il gusto del grande schermo.
A chi si addice un film di acqua minerale con zolletta di zucchero (shakerata).
Lungamente inutile il refrain musicale che viene orecchiato troppe volte per rimanere originale.
A-ha. Ed ecco che ‘Take on me’ (del 1985) ribattezza il film anni ottanta come fosse un musical(rello) non proprio in auge (e che dire che il brano synth-pop norvegese cade dalle nuvole come fosse oggi con un ritmo alquanto incerto … tra vintage, piscina, boy pettorale e girl plastificate).
Long drink in attesa di bevuta, long play in attesa di vederli, long music in attesa di sentirla, long musical è in partenza (long fly…).
Antesignano di un genere post-datato… direi piuttosto ante-deja-vu con doppia strada (traffico o non traffico) che par vero il sogno di un amore (im)possibile (rivedere David Lean di ‘Breve incontro’ -1945- è una vera lezione per tutti).
Non curante e poco incurante o forse solo sbiadita-mente accurato per i vizi (reconditi) di una chiosa di un cinema troppo intristito dal virtuoso post-modernismo (annullato) e senza barriere digitali.
Dimesso e disteso, dileguante e dj(Legend). E fare musica nei punti chiusi e oscuri (il cinema è linea di leggende in chiusura come l’incipit di ‘The Canyons’ -2013- di Paul Schrader).
Emma Stone (Mia) e Roy Gosling (Sebastian) sembrano ben assortiti ma non riescono a completarsi come si vorrebbe e lei nella sua semplice gestualità e leggero disincanto fa la brava nel post-vuoto attorno. Il bollore o meglio il(a) bollito(a) con la barba incolta e/o con la maglietta (quasi sgualcita di tendenza) al provino della vita rimarca il gusto del perdente sempre fino a quando le scarpe con i tacchi (meglio toglierle a casa di fronte al marito e bebè) sono scomode e perdenti.
E il doppio di scena (come ‘Sliding Doors’ -1998-) come la doppia versione come i doppi ruoli sono come un sogno da riempire con narrazione non occasionale. D’altronde qualche gesto e qualche minima volgarità rientra nell’entourage dell’acchiappa-pubblico per piacere a tutte le età.
Quattordici…. come già aver vinto…. come un film alla Vincente Minnelli (si legge). E allora ‘Un americano a Parigi’… quante stelline ad oggi?
Voto: 5½ /10 (voto di routine per un film che non rivedrei -volentieri- a stretto giro).