Nel 2017, a 25 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, Franco Maresco decide di realizzare un nuovo film. Per farlo, trova impulso in un suo recente lavoro dedicato a Letizia Battaglia (La mia Battaglia), la fotografa ottantenne che con i suoi scatti ha raccontato le guerre di mafia, definita dal New York Times una delle “undici donne che hanno segnato il nostro tempo”. A Letizia, Maresco sente il bisogno di affiancare una figura proveniente dall’altra parte della barricata: Ciccio Mira, scalcinato organizzatore di feste di piazza con cantanti neomelodici.
Lo sgomento e l’amarezza sono sentimenti che, fin dai suoi esordi al fianco dell’ex sodale Daniele Ciprì, appaiono come parte integrante del cinema di Franco Maresco. Prendono di soppiatto il “malcapitato” spettatore, trascinandolo in un esilarante vortice di mostruosità liberatoria e divertimento colpevole. Al cospetto delle immagini di questo artista palermitano, nel senso più alto e al contempo più anti-retorico del termine, si ride a crepapelle e un secondo dopo – a volte perfino in simultanea – fa capolino un disagio che rimescola e confonde le carte in tavola e le coordinate morali di chi osserva, costringendo a vedere oltre il bon ton, il rassicurante, l’ecumenico oggi tanto in voga.
Un procedimento di empatia e repulsione che si rinnova, manco a dirlo, anche nel suo ultimo film, La mafia non è più quella di una volta, presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia, dove si è portato a casa (a sorpresa) un meritato premio speciale della giuria e in arrivo nelle sale il 12 settembre. Al Lido l’autore non si è presentato, un po’ per la nota ritrosia e le risapute nevrosi cui si accompagna da molti anni un po’ per evitare il fuoco di fila di domande, quelle sì retoriche e di comodo, alle quali la sua opera e le sue maschere sarebbero andati incontro, non trattandosi certo di un “prodotto qualunque”.
Maresco riparte, cinque anni dopo, dal protagonista di Belluscone. Una storia siciliana, sorta di canto di morte, vitalissimo e disperato come al solito, sull’idillio tra l’ex premier e l’isola: quel Ciccio Mira del quale non manca di far notare, a un lustro di distanza, il parziale pentimento, o quantomeno l’apertura a un evento canoro in omaggio a Falcone e Borsellino nella ricorrenza del quarto di secolo della loro uccisione (previsto allo Zen2, estrema periferia di Palermo). Nell’ambiguità di questo tuttofare trafficone e male in arnese, da sempre vicino ai boss di Cosa Nostra, si riversa tutto il disincanto di Maresco per una mafia sostanzialmente equiparata all’anti-mafia, in un impeto di confusione semantica preoccupante, contro-producente e ovviamente ridicola, al cui apice La danza delle streghe di Gabry Ponte può sovrapporsi all’Inno di Mameli senza colpo ferire.
Ma se i prodotti televisivi medi provvedono ad edulcorarne o mitizzarne la portata e il peso presso l’immaginario collettivo, Maresco continua a procedere, col suo piglio eretico, in direzione ostinata e contraria. Ed è così che le interviste frontali e le repentine virate al bianco e nero si nutrono ancora una volta di freak la cui ingenuità e purezza coincidono con l’oscenità di un’umanità più che mai orfana di una bussola, incastrata in quei paradossi brutali e macchiettistici di cui la Sicilia, crocevia di culture e di orrori, di ricchezza e degradazione della stessa, non è mai stata avara.
In ordine sparso: giovanissimi performer ai quali Falcone e Borsellino appaiono in sogno (ammesso che sia andata davvero così) ma che non si sognerebbero mai di dire “abbasso la mafia!”; celebrazioni trasformate in baracconi chiassosi sotto lo sguardo attonito e demoralizzato della Battaglia, della quale Maresco sposa il pessimismo misantropo e feroce; il presunto silenzio di Mattarella sull’esito della sentenza sulla trattativa Stato-Mafia che degenera in uno sgarrupato racconto animato di Mira su un incidente stradale che portò l’auto della sua famiglia, quand’era ragazzino, a schiantarsi contro la casa di famiglia dell’attuale Capo dello Stato, con tanto di aneddoto sulla passione cinefila del Presidente della Repubblica per Ingmar Bergman. E si potrebbe proseguire.
In questo singolare campionario di trovate e frattaglie narrative ed estetiche, per le quali la definizione-ombrello di documentario suona più che mai stretta, a emergere non sono solo il cinismo viscerale di Maresco e la sua libertà lontana da ogni indirizzo, cittadinanza e casella, ma anche l’impossibilità di una catarsi, la resa di qualsivoglia forma di compassione, l’eco sinistra di una risata malsana che rinnega l’indagine antropologica classica come usurato strumento di conoscenza per preferivi una volta di più il blob, il lampo, il frastornamento (Gli uomini di questa città io non li conosco era il titolo di un precedente lavoro di Maresco sul misconosciuti drammaturgo Franco Scaldati). Un cinema-laboratorio sicuramente non per tutti né per tutti i gusti, ieri come oggi, ma la cui forza perturbante non smette di ammaliare e atterrire.
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