«Perché no?». A dispetto del punto interrogativo, è la risposta più frequente che esce dalla bocca di Benjamin Mee (Matt Damon). E quella che ha guidato la sua vita nei momenti topici, conducendolo su strade anche molto rischiose. Rimasto vedovo, Benjamin decide di abbandonare il lavoro di giornalista per dedicarsi completamente ai suoi due figli, la piccola Rosie e l’adolescente Dylan, e di trasferirsi insieme a loro in una nuova casa, che ha l’unico inconveniente di essere circondata da una zoo. Riaprire al pubblico il parco e nel frattempo far ripartire la propria vita e quella dei suoi bambini saranno le sue priorità.
Se non fosse tratta da una storia vera, La mia vita è uno zoo sarebbe una bella favola, di quelle che possono esistere solo nei libri o al cinema. E invece è intessuta di tematiche che ogni giorno toccano le nostre vite e sono care al regista e al suo cinema a due anime: una dolce e una amara. Il Benjamin Mee di Matt Damon, infatti, ricorda da vicino il Jerry Maguire di Tom Cruise e il Drew Baylor interpretato da Orlando Bloom in Elizabethtown: uomini di successo che improvvisamente devono rimettersi in piedi e afferrare la propria esistenza prima che il vuoto e la depressione la travolgano. Naturalmente con l’aiuto di compagni d’avventura che condividano gioie e dolori e percorrano il viaggio fino alla fine. Nel film sono i ragazzi dello staff dello zoo, e in particolare Kelly/Scarlett Johansson e la sua cuginetta Lily/Elle Fanning, che con molta discrezione – e rispettando i loro tempi e il loro dolore – sapranno far breccia nel cuore di padre e figlio. «If you love me, let me know (Se mi ami, fammelo sapere)» scrive Lily a Dylan, esplicitando un profondo bisogno d’amore che anche lui sente e che il padre non sa soddisfare. Al tema dell’elaborazione del lutto si affianca, dunque, anche una bella riflessione sul difficile rapporto padre-figlio e sugli ostacoli dell’adolescenza, che sullo schermo si traducono in tanti piccoli momenti intrisi di pathos. Dove al regista basta alzare il volume della musica (notevole la colonna sonora che alterna le note di Tom Petty a quelle composte appositamente per il film da Jónsi, chitarrista dei Sigur Rós) per penetrare negli abissi emotivi dei personaggi.
Matt Damon incarna in modo credibile il bravo padre di famiglia che, spiazzato dalla perdita della compagna di vita, finisce per sentirsi inadeguato e impreparato a ricoprire il ruolo. Attorno a lui una schiera di giovani attori, molto bravi a non trasformarsi in macchiette, la spalla comica Thomas Haden Church (che nel film interpreta suo fratello e ogni volta che compare sulla scena porta una ventata di leggerezza e ilarità) e una Scarlett Johansson insolitamente dimessa e sobria, il cui personaggio non sempre risulta a fuoco. Se l’happy ending è d’obbligo – come ogni favola che si rispetti – non altrettanto scontato è il ricatto retorico a cui Crowe cede nel momento in cui alza l’asticella del buonismo. Ed è nelle scene più edulcorate e melense, troppo perfette anche a livello cromatico, il tallone d’Achille di una commedia malinconica a target famigliare, che saprà comunque conquistare i bambini, intenerire gli animalisti e suggerire agli adulti molti spunti di riflessione. A partire dalla sua morale: sopravvivere alla perdita si può. Basta solo trovare la forza di evadere dalla gabbia della depressione. E se per farlo bisogna imparare a dialogare con tigri e leoni, perché no?
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Mi piace
Il messaggio di speranza che passa attraverso una storia semplice ma efficace.
Non mi piace
L’aspetto più patinato ed edulcorato del film, specie nell’ultima parte.
Consigliato a chi
Alle famiglie con figli anche piccoli che nutrono una spiccata sensibilità verso gli animali.
Voto
3/5