Nella Napoli del 2018 sei quindicenni – Nicola, Tyson, Biscottino, Lollipop, O’Russ, Briatò – vogliono fare soldi, scalare i vertici criminali del loro quartiere, il rione Sanità, conquistare autorevolezza e rispetto sul territorio a suon di intimidazioni e prevaricazioni. Data la loro giovane età, le loro imprese somigliano a un gioco, naturalmente più grande di loro. Una partita dalla quale non si può uscire, che punta dritto all’inferno e porta con sé un’inevitabile perdita dell’innocenza.
A raccontarli, ne La paranza dei bambini, è il regista Claudio Giovannesi, che ha sceneggiato quest’adattamento del romanzo omonimo di Roberto Saviano insieme allo scrittore e a Maurizio Braucci. L’autore di Fiore e Alì ha gli occhi azzurri, dietro la macchina da presa anche per due episodi della seconda stagione di Gomorra – La serie, si conferma una voce di potenza cristallina nel panorama cinematografico italiano: un cineasta capace di aderire ai sogni e ai bisogni dell’adolescenza con una purezza rara, schietta, mai giudicante.
La paranza dei bambini, unico film italiano in concorso alla Berlinale 2019, non è una Baby Gomorra, come lo stesso Giovannesi ha tenuto a sottolineare, ma un romanzo di formazione in piena regola, in cui lo stupore e l’incanto della crescita, dei primi amori e delle amicizie di sempre si ritrovano a fare a pugni con un microcosmo in cui non sono consentite altre vie al di fuori dell’aggressione (a mano armata) della realtà. Un’educazione sentimentale e criminale che silenzia la violenza più efferata, la attutisce, ne esplora le contraddizioni con rigore poetico.
Non ha bisogno di artifici, La paranza di bambini, di soluzioni a effetto, di spettacolarizzazioni. Procede per blocchi minimali e naturalistici, con un realismo che mette sullo stesso piano il candore e la ferocia, l’asciuttezza e la raffigurazione di un contesto popolare di forte degrado umano e sociale. Non gli interessano nemmeno la denuncia e l’ossessiva aderenza informativa alla cronaca camorristica, che sono prerogative dei testi di Saviano ma che al cinema avrebbero rischiato come spesso accade di tramutarsi in zavorre controproducenti, proprie di altri strumenti e linguaggi.
Il faro dell’operazione diventano così la verità e la verosimiglianza dei volti dei paranzini, compagni che non temono il carcere e la morte a cominciare da quello, davvero magnifico, del protagonista Francesco Di Napoli, un angelo dalla faccia sporca che non aveva mai recitato prima e che incredibilmente regge tutto il film, sulle spalle e negli occhi. Un’espressività generale esaltata dal casting di Chiara Polizzi, che alla vecchia maniera neorealista ha selezionato i protagonisti tra oltre quattromila ragazzi che abitano i vicoli e le strade partenopee in cui la storia è ambientata.
E avrà sicuramente aiutato anche la scelta di girare in sequenza, rivelando man mano a ognuno degli attori coinvolti i risvolti e le pieghe della storia. Il risultato è un racconto empatico che arricchisce l’universo narrativo, cinematografico e seriale generato da Gomorra, il più noto dei romanzi di Saviano, di una prospettiva nuova, ancorata all’adolescenza, alla struggente precarietà dell’assenza di futuro, all’ebbrezza disperata ma pulsante con cui i protagonisti mordono la vita sapendo che, per loro, la morte potrebbe essere sempre e comunque dietro l’angolo.
Un racconto impietoso e insieme pieno di pietà, che non teme di trasformare le scorribande di un gruppo di ragazzi a bordo dei loro motorini in dramma. Se il finale di Fiore metteva in scena la fuga dall’istituzione carceraria di due giovani innamorati aprendo le porte a un futuro tutto da scrivere, alla maniera di Truffaut, La paranza dei bambini quel bagliore di speranza lo spegne brutalmente, rigettando i propri pesci in un oceano terribile e inconoscibile.
«Paranza è un nome che viene dal mare, nome di barche che vanno a caccia di pesci da ingannare con la luce. E come nella pesca a strascico, la paranza va a pescare persone da ammazzare. Qui si racconta di ragazzi guizzanti di vita come pesci, di adolescenze “ingannate dalle luce”, e di morti che producono morti», recita dopotutto la quarta di copertina del libro di Saviano. Un inganno crudele che le immagini di Giovannesi accarezzano con equidistanza e saggezza, raccontandone il qui e ora e lasciando allo spettatore il compito, etico e morale, di intuirne strascichi e conseguenze.
© RIPRODUZIONE RISERVATA