La pelle che abito: la recensione di IO DANY
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La pelle che abito: la recensione di IO DANY

La pelle che abito: la recensione di IO DANY

Pedro Almodóvar non ha certo bisogno di presentazioni. Il suo talento non è testimoniato soltanto dal fatto che col tempo il regista spagnolo è diventato una punta di diamante della cinematografia iberica e un artista riconosciuto a livello internazionale, ma anche dal fatto che gran parte degli attori transitati per i suoi film sono diventati vere e proprie star nazionali e internazionali (da Carmen Maura a Marisa Paredes fino a nomi di richiamo come Penelope Cruz o Antonio Banderas). Da molti definito l’erede naturale di Luis Bunuel, il maggior pregio di Pedro Almodóvar è senza dubbio quello di aver saputo coniugare il dramma peculiarmente umano con l’ironia che da questo spesso scaturisce, di aver dato vita a uno stile in cui tragico e comico sono divisi da una sottile e labile linea di confine, uno stile tanto particolare da esser stato ribattezzato ai tempi del bellissimo Tutto su mia madre come Almodrama. Lavori dunque in cui confluiscono i mille spettri emozionali di una stessa esistenza, come fossero tavolozze di colori vivaci mescolate tra loro in maniera apparentemente disordinata, ma in realtà sempre linearmente connaturate a un profondo realismo che trapela dalla rotondità narrativa delle storie, dalle magistrali interpretazioni dei cori di attori che di volta in volta recitano nei suoi film. Comune a tutti i suoi lavori, comunque, rimane un sottotesto di dolorosa disamina di rapporti umani spesso feroci, di sobborghi esistenziali privi di luce, e soprattutto dell’instabilità creata dalla ricerca dell’identità sessuale e un proprio posto nel mondo. In quest’ultimo lavoro, pur contenente tutte le tematiche care al regista, l’Almodrama vira verso il thriller, accostando ai consueti drammi umani l’ombra della scienza che raggiunge e supera le colonne d’Ercole della morale. Il risultato è un Frankenstein almodovoriano dell’epoca moderna.
2012. Nella splendida residenza di El Cigarral vive l’eminente chirurgo plastico Robert Ledgard (Antonio Banderas), insieme a una fida e devota ‘governante’ (Marisa Paredes) e a una bellissima donna di nome Vera (Elena Anaya), avvolta in una tuta che le fa da seconda pelle e reclusa in una delle enormi camere della villa in cui trascorre le sue giornate a fare lunghe sedute di yoga e creazioni di stoffa con i ritagli di vestiti da donna che disprezza. Ma chi è quella donna tanto simile all’amata moglie di Ledgard morta carbonizzata anni prima in un incidente d’auto? Passo indietro. Un salto temporale nel passato ci riporta al momento in cui la vita di Ledgard è stata stravolta per sempre, ritrovatosi impotente di fronte al corpo sfigurato di sua moglie. Quell’infausta vicenda, seguita da un altro enorme trauma famigliare, farà naufragare Ledgar in uno stato di cupa alienazione, sfogata solo nel tentativo ossessivo di mettere a punto una pelle (transgenica) molto più resistente di quella umana, una (seconda) pelle capace di resistere alle punture d’insetto così come alle ustioni. Pur di raggiungere il suo obiettivo il chirurgo non si fermerà di fronte a nulla, spingendosi oltre i limiti dell’umana moralità, facendo carte false pur di abbracciare (per un momento) l’illusione di riavere tra le sue braccia la donna perduta. Anche a costo di distruggere una o più vite altrui, oltre che sé stesso.
Pur spinta verso limiti di parossismo emotivo ed esistenziale, con punte anche estremamente difficili da metabolizzare per la loro ‘scabrosità’, la linea scelta da Almodóvar in questo suo ultimo film (liberamente ispirato al noir Tarantola di Thierry Jonquet) è quella di anestetizzare in parte il dramma umano per favorire l’articolata struttura del suo thriller (non un thriller canonico, ma un Almothriller pieno di tutti quei sottotesti tipici dei film del regista). Una manciata di personaggi (come sempre) alle prese con i loro drammi (la morte, la sessualità, la follia) – stavolta non “in difesa dell’agguato della follia” ma spinti oltre il suo baratro, in quanto privati di una possibile normalità – sui quali troneggia la figura di Robert Ledgar, accecato dalla rabbia e dalla sofferenza per la perdita della propria famiglia e dunque assetato di vendetta. Una vendetta che metterà in atto contro il primo (malcapitato) essere che (suo malgrado) si servirà su un vassoio d’argento come capro espiatorio. Un crescendo drammatico accompagnato da una regia pulita, puntuale, rotonda, che sembra cingere l’intera storia nella lucida estetica della sofferenza, fil rouge di questo e di tutti i film del regista spagnolo. E se altrove l’ironia era congeniale allo svisceramento del dramma, qui la vena ironica è presto smorzata dalla straordinaria crudeltà degli eventi, cui tutti i protagonisti finiranno in un modo o nell’altro per soggiacere.
Commento finale:
Almodóvar torna in sala a due anni dagli Abbracci spezzati con un nuovo film destinato a spiazzare pubblico e critica per la digressione nel suo personale percorso artistico che La pelle che abito sembra rappresentare. Un dramma condito di sfumature thriller e horror con un’ottima messa in scena nello stile precipuo del regista spagnolo, ma che manca di appassionare come dovrebbe. Una storia che si preannuncia scabrosa e intricata al punto giusto, ma che alla fine rimane asettica e ‘anemozionale’ quanto la pelle transgenica di cui si parla, nonostante il solito carnet di ottimi attori, la pulizia chirurgica della regia, e una lugubre storia dal grandissimo potenziale.

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