Tra gli spiriti che infestano il centro storico di Napoli, dopo essere stati improvvidamente liberati dalle forze dell’ordine, nell’ultima parte di Sono solo fantasmi, ce n’è uno che rotea a mezz’aria spruzzando escrementi, con i pantaloni alla caviglie.
Il fatto è notevole perché la qualità degli effetti speciali è buona quanto il soggetto è volgare: è come se improvvisamente il cinepanettone avesse scoperto la CGI senza rinunciare alla proprie abitudini linguistiche. Sebbene infatti l’umorismo pecoreccio del film sia meno invadente di quanto il trailer faccia pensare, le battute triviali e le gag “corporali” continuano a cadenzare il ritmo del racconto.
In pratica è come se stessimo vedendo Boldi e De Sica che – tra una battuta e l’altra – cercano di sopravvivere a una invasione aliena, la sensazione è quella di una serie di immaginari che collassano l’uno sull’altro: il fantasy anni ’80 filtrato dalla nostalgia dei nuovi autori (qui Luigi Di Capua affianca Andrea Bassi e Christian De Sica stesso, ma il soggetto è di Nicola Guaglianone e Menotti), il “nuovo” cinema digitale, la farsa regionale e – come vedremo – perfino la nostra commedia anni ’50.
La storia è quella di Thomas (De Sica), Carlo (Carlo Buccirosso) e Ugo (Gianmarco Tognazzi), tre fratelli squattrinati che si ritrovano a Napoli per la morte del padre Vittorio. Il sogno di un’eredità che risolva i problemi di tutti è presto spazzato via dalla scoperta dei debiti del genitore, donnaiolo impenitente e giocatore d’azzardo sfortunato. Ma la casa di famiglia è infestata dai fantasmi e così i tre decidono di trasformarsi in ghostbusters per tirar su qualche soldo. Non sanno che tra gli spiriti che minacciano la città ce n’è uno particolarmente pericoloso, che vuole bruciare tutta Napoli.
Oltre al testo fantasy, il film ha un meta-testo tutto cinefilo, va infatti in scena una specie di armistizio tra due epoche della nostra commedia all’italiana, rappresentate dai due ruoli di De Sica: quello di un mago da strapazzo (modellato sulla figura di Giucas Casella, altro riferimento agli anni ’80) e quello del fantasma paterno, chiamato non a caso Vittorio e truccato esattamente come De Sica padre. E potremmo aggiungere che anche Gianmarco Tognazzi nel film si chiama come suo padre Ugo.
Sono loro i fantasmi di celluloide che paiono voler spazzare via la propria poco degna discendenza, forti del loro genio creativo e delle vecchie storie da rotocalco (la passione per il gioco e la turbolenta vita sentimentale del vero Vittorio De Sica), un conflitto che nella resa dei conti finale tra acchiappa-fantasmi ed ectoplasmi trova una risoluzione sentimentale e perfino una certa commozione.
Questa però è tutta teoria critica, il gioco delle contaminazioni e dei rimandi interni fa la gioia dei filologi ma non riempie la pancia al pubblico. Il film com’è? Leggero, ben congegnato, ma incerto nel registro comico così come in quello fantasy: i mostri sono spaventosi ma non spaventano chi conosce l’horror, le gag fanno al massimo sorridere (come Buccirosso che parla con accento milanese), l’intreccio solido ma mai davvero appassionante. Inoltre il budget permette escursioni digitali limitate in numero e dimensioni, e l’Apocalisse che nell’ultima parte pare volersi scatenare su Napoli va poco oltre qualche nuvola nera eruttata dal Vesuvio.
Quasi un paradosso: un film per il pubblico che rischia di essere soprattutto un film per la critica volonterosa, perché ha bisogno di essere “letto”. Ma l’operazione resta interessante e dice molto di come l’industria della nostra commedia si stia agitando creativamente in cerca di nuove soluzioni, tra presente e passato, riciclo nostalgico e ansia generazionale.
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