La regola del gioco: la recensione di Mauro Lanari
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La regola del gioco: la recensione di Mauro Lanari

La regola del gioco: la recensione di Mauro Lanari

Per la prima volta produttore, Renner “ci dona [ben più del]la sua miglior interpretazione dai tempi di ‘The Hurt Locker'”: riporta in vita Gary Webb affinché il suo sacrificio non sia vano. Giornalista del “San José Mercury”, nell’agosto ’96 pubblica la più famosa delle proprie ricerche investigative, un reportage intitolato “Dark Alliance” col quale dimostra il coinvolgimento della CIA nel traffico di droga dal Nicaragua alla California, i cui profitti servivano per armare i Contras dopo ch’il Congresso aveva bocciato il progetto reaganiano di finanziare la loro rivolta anticomunista. Le sue indagini iniziano a essere scomode e contro di lui viene scatenata una campagna diffamatoria, una “macchina del fango” che l’investe di sospetti abilmente insinuati fino a quando nel dicembre ’97 lascia il quotidiano dov’ormai è oggetto d’un mobbing “ante litteram”. Non riesce più a trovare impieghi presso grandi giornali. Abbandonato dalla moglie e depresso, il 10 dicembre 2004 viene trovato morto con due colpi di fucile alla testa. Nel frattempo il suo scoop è oscurato dai media che depistano l’attenzione pubblica sullo scandalo fra Clinton e la Lewinski. Mentre in soundtrack passa “Know Your Rights” dei Clash, l’oligoplutocazia postdemocratica, così la definiscono i politologi, ha trovato e attuato efficaci contromosse per impedire un nuovo Watergate (1972): l’ambiente del “Washington Post” descritto da Pakula nel ’76 in “Tutti gli uomini del presidente” semplicemente non esiste più e le redazioni son’ormai occupate da cim’in fondo da yesmen, velinisti e portaborse di quelle lobby incriminate. Con la manipolazione dei media, “il governo usa la stampa invece che tacere. Se si lavora coi reporter amichevoli sui principali quotidiani, viene fuori come detto dal ‘New York Times’ e non da un portavoce della CIA.” 77% su RT: la “potente furia nel raccontare la vita reale del suo soggetto sostituisce l’inesattezze di fatto e gl’occasionali inciampi narrativi.” “Nonostante un soggetto di ferro, puro materiale da cinema di denuncia della New Hollywood, e un cast memorabile, ch’affianca caratterist’irriducibili come Ray Liotta, Andy Garcia e Oliver Platt, la trattazione della materia lascia a desiderare”. “La regola del gioco” ricorda nell’intenzioni (non nei risultati sublimi) lo spirito dell’immortale ‘Insider’ di Michael Mann”. Macché: il film di Cuesta adotta uno stile omogeneo al suo contenuto, quello del reportage diretto, minimalista e palpitante, con la dissolvenza in nero sul protagonista durant’i titoli di coda e le poche didascalie che ne ricordano l’esito funesto. Le stilizzazioni autoriali lasciamole a chi vezzeggia lo spettatore con un falso “happy ending” in cui i donchisciottismi trionfano sempre, non terminano mai in amara tragedia da loser, da vittoria di Pirro, da Davide perdente contro Golia. Quest’invece è cinema da eteronomia e non autonomia dell’arte, ancora strumentale e funzionale alla caccia di Verità e Giustizia, dove l’est-etica non s’è ancora scissa dall’etica. Un approccio che non limita l’ambizioni della pellicola bensì l’esalta. “Il film si pone di certo l’obiettivo di celebrare il rischioso impegno di Webb […] trasmette[nd’]un senso d’inquietudine ch’evita la trappola della glorificazione eroica, come dimostra il forte e aspro discorso di Gary ai colleghi che gli voltano le spalle.”

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