Vedi Redford e sai cosa bevi. Ovvero, vedi l’icona liberal del cinema anni ’70 a-la-Tutti gli uomini del presidente e sai cosa aspettarti. Un thriller solido vecchia scuola del regista-attore, in cui si racconta di un gruppo di attivisti che negli anni ’70 – di fronte all’impossibilità di fermare la guerra in Vietnam – pensano di scuotere il Paese colpendone i centri nevralgici con attentati dinamitardi: si chiamano i Weathermen.
Trent’anni dopo tutti si sono rifatti una vita, hanno cambiato nome e avuto pochissimi contatti tra loro – facendosi beffe dell’F.B.I – fino a quando un componente del gruppo, divorato per anni dai rimorsi (Susan Sarandon), non decide di costituirsi, stimolando la voglia di scoop di un giovanissimo reporter investigativo che vuole diventare famoso a tutti i costi (Shia LaBeouf). Una ricerca che lo porterà a far saltare la copertura di un tranquillo avvocato di Albany, tale Jim Grant (Redford), che col suo nome vero è tuttora ricercato per omicidio. Grant dovrà darsi alla fuga e confrontarsi, pezzo dopo pezzo, col proprio oscuro passato.
Redford lavora molto bene entro i confini del genere thriller, ma complice il cast di veterani e una certa schematicità dei fatti e della narrazione, ci offre un film un po’ troppo vintage, a tratti bolso, come il protagonista stesso. Il ritmo accelera quando entra in campo LaBeouf, con la sua parlantina sciolta e quel tipico graffio nelle sue corde. Detto ciò, i dialoghi tra il protagonista e il pezzo da novanta Julie Christie, ma anche quelli con le altre vecchie glorie (Sam Elliot, Richard Jenkins, Stanley Tucci e un grande Nick Nolte) impreziosiscono la pellicola e le conferiscono una certa autorevolezza.
Piace molto, inoltre, la voglia di critica che il regista dem non risparmia a chi, partito con le migliori intenzioni, ha poi sbracato finendo per scivolare nel terrorismo. Il cinema Usa solitamente non va mai a caccia di queste storie, specie se si tratta di recitare qualche mea culpa. Ed è proprio quest’onestà intellettuale e l’assenza di trionfalismi patriottici, anzi la ridicolizzazione dell’F.B.I. (un po’ un cliché del genere), oltre alle contraddizioni e alle crisi di coscienza dei singoli personaggi, che rendono La regola del silenzio (passato a Venezie e Courmayeur) una pellicola onesta e intrigante. Lo stile registico e la pelle del buon Robert saranno anche invecchiate, ma lo spirito è sempre giovanissimo.
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Mi piace: il desiderio di autocritica del regista liberal
Non mi piace: un certo schematismo e alcune scene action “bolse”
Consigliato a chi: ai nostalgici e agli amanti dei thriller classici
VOTO: 3/5
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