«Posso fidarmi?». È la domanda che Barbara si pone, senza mai pronunciarla, a ogni incontro.
Vive così, nel sospetto e nel silenzio del suo esilio, la protagonista (un’intensa Nina Hoss) del nuovo film di Christian Petzold, una dottoressa della Berlino Est del 1980 trasferita in un piccolo ospedale di campagna come punizione per la sua richiesta di espatrio. Aspettando che il fidanzato dell’Ovest la porti finalmente lontano. Da un mondo di sospetti, paura, violenza e vigilanza, dove la fiducia, appunto, è poco più di una parola… Finché due persone riusciranno a restituirle un vero senso: una giovanissima paziente, Stella (Jasna Fritzi Bauer), vittima dei soprusi dei campi di lavoro, e il suo capo, André (Ronald Zehrfeld). Se la prima vede in lei un faro di speranza che la possa condurre verso la libertà, il secondo le si offre come sostegno. Atteggiamenti, specialmente quelli dell’uomo, che la confondono e mettono a repentaglio la sua barriera affettiva, eretta con i mattoni di un doloroso passato (che il regista sceglie di rimettere alle conoscenze e alle intuizioni del pubblico), e soprattutto la sua scelta, il suo piano di fuga.
Sullo sfondo di una delle più buie pagine della recente Storia europea, si snoda quindi un racconto di intimissimi conflitti interiori, mai veramente rivelati. Piuttosto suggeriti. Il regista lascia alla sala l’interpretazione di gesti e sguardi, che sostituiscono il dialogo alimentando dubbi ma, al contempo, favoriscono l’empatia e il processo di immedesimazione. Di fronte alla gentilezza di André lo spettatore è smarrito tanto quanto Barbara. Ciò che potrebbe attrarla rischierebbe allo stesso tempo di rovinarla. «Il suo aiuto, la sua corte, i suoi sorrisi sono sinceri? O gli sono stati imposti dall’Alto per ottenere informazioni? È una spia?». Tutte domande che, d’altra parte, sollevano una questione più grande: un voto professionale e umano al quale non si può fuggire. E che si fa spazio in un paesaggio che diventa via via più opprimente, come il dubbio di aver imboccato la strada sbagliata. Gli incontri clandestini con il fidanzato, che all’inizio hanno luogo alla luce del sole, all’ombra degli alberi, si trasferiscono in un hotel avvolto dall’oscurità. I percorsi per raggiungere i nascondigli di contanti e documenti preziosi si fanno sempre più impervi. Il piccolo ospedale di periferia, parallelamente, si fa sempre più accogliente. È lì che Barbara ritrova il sonno, la pace e la sua vera missione. In cuor suo ha la risposta e sa che la scelta giusta non è quella più facile. E che fuggire dal suo mondo non l’aiuterà a cambiarlo. Perché per combattere il sistema, il primo e più importante passo è tranciarne gli schemi, riscoprendo la fiducia reciproca, che è stata smantellata ad hoc dal Potere (divide et impera).
Il film è dunque un percorso interiore di presa di coscienza di sé e di ribellione all’oppressione. Che viene dipinto con estrema sensibilità, ma che tuttavia ci catapulta in medias res in un’avventura che avrebbe necessitato almeno una breve premessa e una più precisa contestualizzazione. Una pecca che potrebbe creare non pochi problemi di comprensione al pubblico più giovane. E che se risolta avrebbe, invece, contribuito a rendere più potente e significativa la scelta di Barbara.
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Gesti e sguardi sostituiscono il dialogo alimentando la tensione del thriller interiore vissuto dalla protagonista e, al contempo, favoriscono l’empatia e il processo di immedesimazione.
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La storia avrebbe dovuto essere meglio contestualizzata. Anche per chiarire i trascorsi e il conflitto interiore della protagonista.
Consigliato a chi
Ama le storie dei piccoli grandi eroi che possono cambiare il corso degli eventi con un semplice gesto di umanità verso il prossimo e sé stessi.
Voto: 3/5
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